SUONANDO SULLA NAVE

Il tema del viaggio ha innumerevoli sfaccettature dunque può essere affrontato in altrettanti modi. Non ho viaggiato troppo per i miei gusti, ma abbastanza per affrontare diversi aspetti del tema. Vivendo in un’isola e non amando il volo, la nave è stato uno dei prevalenti mezzi di trasporto dei miei viaggi e potrei descriverne tanti.

Partirei da un concetto generale: la differenza tra il viaggio e la vacanza, o almeno quali aspetti contenga il viaggio della vacanza e la vacanza del viaggio. Difficile compendiare tutto in poche righe, è più semplice scegliere una tipologia e svilupparla, anche perché si parla di aspetti per lo più soggettivi.

Il viaggio può ben essere il percorso da un punto verso una meta, ma più che il percorso grezzo, qualsiasi aspetto possa caratterizzarlo dal suo inizio alla fine. In questo senso un’esperienza di viaggio può anche essere spostarsi dalla propria residenza per pochi chilometri e con qualsiasi mezzo, perfino a piedi, come un viandante. In qualsiasi modo sia, ognuno potrebbe avere la possibilità di stendere un resoconto più o meno lungo anche di un viaggio minimo, perché ad ogni passo, ad ogni sguardo, si avrà certamente tanto da osservare. Ecco, vorrei dire che questo è il viaggio, più che l’essere meramente trasportato. Oggettivamente non è una grande scoperta, ma è utile per fissare il proprio punto di vista.

Dei tanti viaggi in nave gli aneddoti si sprecano: la prima volta in assoluto, al termine della  Scuola Media, dovetti combattere con il mare mosso e il conseguente mal di mare, che riuscii a dominare dopo qualche altro viaggio, stando supino ed evitando di mangiare. Gli approdi consueti – a parte quelli sardi – sono stati Civitavecchia e Genova; un po’ meno Napoli, ma ho avuto occasione di conoscere anche i porti di Livorno, Palermo, Ancona, Bonifacio, Dover, Calais, Igoumenitsa e soprattutto Patrasso, nonché porti della laguna veneta e lacustri, insieme a ciò che certamente mi sfugge.

I ricordi un po’ strani sono tanti, considerato che i miei viaggi non sono mai o quasi prenotati. Una volta arrivai al porto e presi la nave al volo, era il periodo degli attentati di Daesh e in quell’occasione vicino al posto che scelsi sul ponte per passare la notte, si riunirono a pregare una quindicina di arabi nelle loro tipiche vesti e figure; sotto l’effetto della suggestione, trascorsi dei brutti momenti finché il rito non finì e si dileguarono. Mi viene anche in mente la traversata con Patrizia, collega di studi, quando passammo la notte in fondo a una scaletta stretta che terminava su una porta chiusa a chiave. Memorabile la traversata della Manica contenuta in un passaggio autostop Parigi – Londra. O il ritorno dalla Grecia, in primavera inoltrata, trascorsi la notte in poltrona con l’aria condizionata a palla, sembrava di essere in un freezer. Non posso dimenticare i viaggi in cui del tutto casualmente incontrai delle amiche e le situazioni particolari che ne conseguirono. Ci sono poi tanti viaggi in solitaria in cui non è successo nulla, a parte lo spostamento da un porto a un altro.

Detto questo, si può tranquillamente stravolgere tutto e sognarlo il viaggio, entrare nella dimensione “trip” con un sogno volontario, una fantasia, e non mancherebbero gli esempi già scritti, suonati e cantati.

La nave non è ben definita, privata, pubblica, ci si sta in compagnia con una chitarra che la fa da padrona e soprattutto fa un gran casino, in certi frangenti gradito alle nostre orecchie, magari non troppo ad altre, comunque attira certamente l’attenzione, sorrisi o riprovazione.

Il suonatore è quello che trae il maggior beneficio, in sintonia con il viaggio, con il moto dell’imbarcazione, in una fusione sensazioni che contemplano perfino le sue dita che scorrono sul manico tra tasti e corde e l’altra mano che strimpella sulla buca del corpo dello strumento, come in un rituale nirvanico che lo fa sentire libero e leggero, tra suono e acqua, ove la mente si immerge e gli pare sentire la pompa distorta di Sgt Pepper’s lonely hearts club band insieme al surreale strumentale di A day in the life.

E come in quest’ultima s’interrompe repentinamente la musica, il cantante si blocca e apostrofa il chitarrista, tra l’esclamativo e l’interrogativo “Ma che cazzo stai suonando!?” e fa un gran danno perché interrompe l’evasione, i pensieri, l’ispirazione psichedelica, in sostanza interrompe il sogno e la verità effettuale.

Da questa fantasia istantanea nasce una canto sillabato alla maniera di Demetrio Stratos (ex Ribelli, ex Area), scomparso prematuramente il 13 giugno 1979:

QUE-sta CAN-zo-n’è TROP-po RU-mo-ro-sa
PER non PO-ter AT-ti-rar l’AT-ten-zio-ne,
LE mie DI-ta SCOR-ron SUL-la CHI-tar-ra
LI-ii-ii-ii-BE-ee-RA-aa-aa-MEN-te. (…)

È il sogno di un viaggio mai avvenuto, forse desiderato, perché talvolta il sogno parte da una smania, ma si trasforma e parte per la tangente. Sogno di un’altra epoca…

37 suonando sulla nave

Suonando sulla nave (37 – V – 7.4 ca) a 23.01.2022

LIBERAZIONE

Penso che a chiunque sia capitato di scrivere, al di là della lista della spesa o del taccuino degli impegni, ma c’è chi, al di là della sporadicità, scrive da sempre, diciamo pure che ha scelto la scrittura come sua occupazione, non come fonte di reddito, dunque non come lavoro… Quella è un’altra casistica che sotto certi aspetti può non andarmi a genio: se percepisco che qualcuno scrive per contratto penso non valga la pena di leggerlo, almeno se quello è lo scopo della sua scrittura.

Per quanto mi riguarda posso dire che la scrittura è andata diventando progressivamente una delle mie occupazioni principali. Ho ricordo di miei scritti fin dalla scuola elementare, tenevo un apposito quaderno dei cui contenuti posso solo fare supposizioni, perché finì al rogo in occasione di qualche brutto voto riportato nei quaderni “ufficiali”…

Iniziata la scuola media la scrittura trovò spazio nei diari, in quaderni, in lettere, prima in forma disordinata e da un certo punto in poi più metodica; da adulto ho cercato di recuperare il più possibile di quanto scritto allora, non perché si trattasse di capolavori o qualcosa di lontanamente simile, ma perché costituiva degli step della mia formazione. Per questa ragione mi sono preso la briga di pubblicare parte di quelle cose anche “banali”, solo in quanto rappresentavano il documento di un percorso.

Con il tempo di esperienze di scrittura ne ho fatto tante e un po’ di tutti i generi, dagli articoli su stampa quotidiana e periodica ai blog, dalla scrittura di versi al racconto e alla saggistica. Essere filologi di se stessi è divertente, ma anche molto impegnativo.

Insomma nel campo della scrittura ho cercato di non farmi mancare quasi niente, neppure l’improvvisazione. Non è un genere cui sono aduso, chi non è avvezzo a improvvisare cade necessariamente in forzature; ovviamente apprezzo quelli bravi. In Sardegna abbiamo sos poetas e sos cantores, posso vantare di averne avuto uno tra i miei avi. Ma il certame poetico, il contrasto o tenzone è abbastanza diffuso anche nel continente. Al giorno d’oggi c’è il rap e i dissing, ma in mezzo all’inflazione ci sarebbe da fare una drastica selezione.

Una delle mie storiche improvvisazioni avvenne in quarta superiore durante l’ora di lezione e al primo banco. Quei brani scritti in quel modo inizialmente non furono riconosciuti, ma li avevo conservati, quasi come mosto che avrebbe potuto diventare vino, non lo diventarono, ma con il tempo acquisirono il titolo di documento, mica poco!

Quella sorta di flusso di coscienza (ante litteram, perché allora non conoscevo Joyce) realizzato con il mio compagno di banco, produsse sei brani, il primo parla di viaggio, dei desideri di un periodo in cui si aspira a essere più grandi per avere più libertà di movimento, ma questa smania viene sostanzialmente contenuta da una sorta di realismo, lo spauracchio della routine.

Quale può essere l’idea di viaggio di un adolescente? L’autostop…Alzarsi all’alba, raggiungere l’autostrada e alzare il pollice… Avevo già fatto le mie prime esperienze in tal senso, ma per spostamenti limitati, non avevo ancora letto Kerouac.

Diciamo che al giorno d’oggi, con la pandemia, cambierebbe anche la prospettiva del testo, non so se si pratichi ancora l’hitch-hiking, sicuramente non con la stessa disinvoltura di un tempo. Ma anche allora non era tutto scontato, capitava di aspettare per ore che un’automobile si fermasse; così nella carriera di un autostoppista, insieme a camminate di chilometri per trovare una postazione migliore, diventavano leggendari i passaggi lunghissimi. A memoria il mio passaggio più lungo è stato Geisingen – Koln di 474 km.

Mi vengono alla mente i ricordi di decine e decine di viaggi in autostop, anche in parte dell’Europa; non ho mai preso nota di essi, ma di tanti ho dei ricordi. La maggior parte di essi riguardano l’attesa del passaggio, raramente del percorso.

Ottenere un passaggio è sempre un sollievo, una sorta di liberazione, di corsa verso l’imprevisto, verso la montagna, il mare o qualsiasi altro luogo spesso sconosciuto. Il senso di leggerezza è tipico di quei viaggi e ogni ricordo è ormai gradevole,  anche dei tratti percorsi a piedi. Eppure in qualsiasi viaggio la meta ultima è casa, il ritorno, il tuo letto e all’inizio anche il ritmo abituale è gradevole, almeno quanto basta per aver bisogno di un nuovo viaggio.

34 liberazione

Liberazione (34 – V – 7.4 ca) a 29.12.2021

UN SOGNO

Gli scritti adolescenziali sono spesso carichi di retorica e rimpianti, benché almeno questi dovrebbero essere ancora molto lontani, tuttavia si vogliono bruciare le tappe e ogni stop è motivo di delusione.

Riletti acriticamente questi scritti appaiono imbarazzanti, ma se si è capaci di contestualizzare gli avvenimenti e le emozioni di un’epoca ormai trascorsa, eppur viva, tutto emerge in una dimensione differente.

Le pene prevalenti di donne e uomini in ogni tempo sono gli amori, ma quelle giovanili, le prime, hanno un sapore particolare, sono spesso lancinanti, intense come se non ci fosse un domani, un’altra possibilità. La vita poi insegnerà a coltivare la speranza e a dimensionare la sofferenza.

Gli amori giovanili sviluppano energie impensabili, dove basta uno sguardo, un sorriso, un contatto, una carezza, a farci perdere la testa, a mettere in moto un mondo sconosciuto di sogni, gelosie, strategie, perfino; ciò soprattutto in teoria, nella realtà si sviluppa piuttosto la paura di fallire, di poter risultare illusi e inadeguati, è qui che l’adolescente, se ne ha l’estro, si rifugia nella scrittura, nel romanticismo, nell’arrendevolezza e indulgenza verso se stessi e in ultima istanza, dopo la confusione e l’incertezza, verso l’oggetto dei propri sentimenti.

Tali drammi si consumano preferibilmente nelle feste che i ragazzi si inventano con un pretesto qualsiasi per riunire il proprio gruppo, anche minimo; solitamente la sceneggiatura è preconfezionata, chi ci prova con chi, chi balla con chi e nel caso le cose dovessero assumere una concretizzazione differente, sorge il problema.

Le variabili in questi casi sono infinite. Una delle tante potrebbe essere che a te piace una ragazza in assoluto, ma hai già realizzato che non è cosa, dunque scegli un ripiego, ma neppure tanto, perché anche quello mostra le sue difficoltà. Per di più l’abbandono della strada maestra moltiplica le problematiche che inizialmente erano solo tue.

Un fallimento totale. Quella che ci si aspettava tu dovessi corteggiare combattendo con i denti e con la quale era da tempo aperto un discorso con risultati alterni, capisce di essersi liberata di te senza alcuno sforzo; l’altra, più piccola, intende di essere un ripiego e ha gioco facile a negarsi: uno sputtanamento che ti preclude terze vie.

Torni a casa con un senso di amarezza, il tuo stesso io si prende gioco di te, recrimini, cerchi soluzioni e concludi che non ti resta che il sogno. Tuttavia sai bene che quello va per i fatti suoi, non procede secondo i tuoi desideri; rimane il sogno ad occhi aperti, l’elucubrazione. Almeno così puoi addomesticare la realtà e volgerla a tuo piacimento.

La piccola ninfa mi si avvicina e mi si abbandona palesemente, sono io a sentirmi un ripiego, visto che non ha trovato rifugio altrove. La situazione è imbarazzante, da adolescenti pochi anni di differenza sembrano tanti e lei è piccola, mi sento ridicolo e rifiuto. In realtà lei è carina, formata, matura quanto posso esserlo io e in questo sogno rivalsa non mi va di essere indelicato, così le spiego di non poter stare con lei perché mi piace un’altra e lei lo sa bene.

La sua espressione è eloquente, si allontana senza proferire parola, mi sento talmente in colpa pertanto la richiamo. Si volta, mi guarda dolcemente, ma è un attimo, in realtà ha voluto canzonarmi, neppure tanto perché poi è scappata via furibonda avendo interpretato che nella mia nuova decisione ci fosse compassione.

Visto che ci siamo spinti fino a questo ribaltamento della realtà, completiamolo interamente: ecco qual è il problema con la ragazza che vorrei, è certamente quello di aver inserito nel mio sentimento, nel mio affetto, una sorta di indulgenza, forse aver mascherato sotto il desiderio, l’attrazione, la remissività eccessiva rispetto al nostro differente modo di vedere le cose e sostanzialmente al diverso modo di essere; come dire, l’incapacità di apparire amabile, con un io meno ingombrante.

Il sogno ad occhi aperti, quando in fondo è una riflessione sul proprio essere e benché da una partenza egoistica pervenga, anche attraverso il ridimensionamento e l’autoironia, a una sana autocritica, può insegnare ad essere più positivi, a sapersi dare, spendersi meglio e risultare piacevoli, nella consapevolezza permanente che in tutto ciò non vi sono evidenze scientifiche.

2 un sogno

Un sogno (2 – II – 17.9 a)  a 29.11.2021

SENZA ETÀ

Il problema è il suono del mare, la sua voce (se parla), il suo dittare. Cos’è il mare? È un immenso blob o è una pluralità di acque che hanno diversi suoni, diverse voci e parlano a chi vogliono parlare e a chi vuole ascoltare? Complesso è complesso il mare, né più né meno di quanto possa esserlo l’umanità, qui fa una cosa, là ne fa un’altra, qui calmo, là mosso, agitato, in burrasca, tempesta, uragano. Le variabili sono tante e interagiscono con il resto della natura, dai venti allo stesso uomo e la natura cambia, come i venti, come le persone. Insomma, se sono nella costa di Arborea o di Pistis, non sono né a Scilla, né a Cariddi o in ciascuna delle altre centinaia di migliaia di spiagge del mondo. Per limitarci al mar di Sardegna avremo un centinaio di suoni diversi moltiplicati per tutti i giorni di ogni millennio. Questo discorso ozioso porta al punto: cos’ha detto quel mare quel determinato giorno.

Il mare parla per incantesimi con il suono dei suoi flutti, una voce che si ripete ossessivamente e puoi recepire il suo messaggio se ti circonda il silenzio, allora ti folgora, ti ispira e detta e se detta devi notare perché è preciso. Se il mare asseconda il tuo pensiero sarà più facile capire.

Riconosco la calma risacca che si infrange sulla sabbia a riva, perfino le spugne, agglomerati di fibre d’alga, sono immutate, come pure i nastri di poseidonia, la spiaggia è deserta, selvaggia, evidentemente non ambita, l’aria è tersa e i capi della Frasca e di san Marco di Tharros sono chiari all’orizzonte.

In questo contesto, il mare dice che anch’io sono lo stesso e sarò lo stesso ogni volta che ci tornerò, come tutte le volte che ci sono già stato, che mi distenda all’ombra o al sole. Il pensiero allora vaga leggero e senza età, a quelle tante volte, alle varie circostanze indubbiamente differenti, benché io sia lo stesso ora e allora. Lo sciabordio mi riporta i clamori familiari, misti al suono dell’acqua e della brezza e altre decine di situazioni, apre la mente, quasi ti fa paura tanta è la sorpresa, la rivelazione: non ho mai avuto età come è vero che sono io, è così da sempre e lo sta dicendo il mare con il suo suono d’onda, con le acque che partono cerimoniose dai due capi del golfo a comporre il messaggio che giunge a destinazione.

Le dispute filosofiche o empiriche sono tante, quella sulle questioni dell’età anagrafica ha la sua importanza, la sua rilevanza, la sua incidenza nella vita sociale. Può apparire ridicolo, ma è così; lo dico per averlo sperimentato, ma è superfluo perché è un fenomeno noto, che si ripete puntualmente quasi tutti i giorni, ed è soggettivo solo fino a un certo punto in quanto la società è orientata a considerare l’età anagrafica discriminante riguardo a molti comportamenti anche a prescindere dal concetto di età biologica. Prima o poi tutti ne avremo l’opportuno riscontro.

Dover assumere certi comportamenti in base all’età che appare sui documenti (fatti salvi quelli che la natura stessa impone) è una palla al piede quasi in ogni momento della nostra vita.

Cito spesso alcuni esempi limite accadutimi per il fatto – a sentire i più – che dimostri meno anni (ciò, se possibile, penalizza due volte): a 18 anni fui cacciato da una sala da biliardo perché ritenuto molto più piccolo; per la stessa ragione le ragazze neppure ti calcolavano; a 23 anni – in occasione delle mia prima esperienza di insegnante – il bidello mi strappò il registro di classe di mano ritenendomi un alunno… e così via. In età adulta accade il contrario, ti capita di essere approcciato a pelle da persone molto più giovani che appena conoscono la tua età anagrafica cambiano atteggiamento.

Mi rendo benissimo conto che non si tratta di un comportamento assoluto, ma anche che l’atteggiamento sociale prevalente va in questa direzione e non ci sono Zero che tengano, né enti, enta o anta. E quando si parla di società, si parla oltre che di retaggio storico – che può avere un suo valore, ma è solo un valore storico – di progresso, che proprio perché è tale deve tener conto anche di un’evoluzione della mente umana: conoscere la storia non per imitarla, ma per trarne insegnamento ed evitare di ripetere errori.

Comprendo anche che si tratti di un problema effimero rispetto a quelli che coinvolgono il mondo in questo momento, ma se abbiamo sempre creduto che il personale sia politico, come non ci insegna solo il Sessantotto, ma perfino qualcuno come Tolstoj in “Resurrezione” o in “Guerra e pace” e non solo lui, non potremo mai occuparci al meglio della società, dell’universalismo, della fratellanza, se non anche curando ogni aspetto della nostra esistenza, anche privata.

senza età

25 Senza età (99 – XXIII.XXXIX – 29.6 arbo) a 29/31.10.2021

NEI NOSTRI VERSI NON CI SON LE MADRI

Quando anni fa mi proposero di scrivere versi sul tema “La madre”, mi interrogai sul perché non ci avessi mai pensato e in realtà non avrei saputo da dove cominciare, né peraltro avevo presenti esempi di qualcuno che si fosse cimentato su questo tema.

“La madre” non è qualcosa di indefinito, non è la madre di chicchessia, è precisamente tua madre; non è un tema che tu, o almeno io, potessi pensare di rendere pubblico a chiunque, per pudore, per rispetto o per qualcosa di interiore che comunque ti impedisce di trattare un argomento così personale.

Ero disorientato, ma considerai l’argomento da un mio punto di vista possibile, intimo, ma anche sociale, oltreché letterario. Portai a termine il lavoro e lo definii, con una sorta di neologismo: parametodologico, ovvero adottai una sorta di metodologia creata ad hoc, un po’ per togliermi dall’impiccio, una sorta di dire e non dire, di mescolare gli elementi citati.

Non ho mai fatto una ricerca, né al momento intendo farla, su quanti, illustri o dilettanti, si siano cimentati su tale argomento, tuttavia (a parte un romanzo della Deledda letto tempo fa) ho la sensazione che non ci sia una quantità enorme di materiale, così specifico intendo.

La mia riflessione produsse delle problematiche, non drammatiche per carità, ma una sorta di senso di colpa che collettivizzai: le madri erano dimenticate in qualche modo nei versi, negli scritti, raramente erano protagoniste e più spesso semplici comparse, l’urlo di protesa sorse spontaneo: nei nostri versi non ci sono le madri!

A pensarci bene è sconvolgente che chi ci ha dato la vita sia messa in secondo piano rispetto a tanta altra gente, ad altri affetti, nelle opere letterarie s’intende, non certo nella vita, ove l’affetto per una mamma è sicuramente universale.

Non ho fatto indagini, ma ho richiamato alla memoria l’infanzia in cui la madre è la persona più presente, ho frugato tra i versi delle maggiori opere letterarie classiche – e più modestamente anche tra i miei – per vedere come venissero trattate, nonché tra le righe della cronaca, spesso spietata, non contestualizzata e scandalistica.

Ai ricordi di mia madre si legano strettamente quelli di mio padre – la fortuna di avere avuto dei genitori presenti – ma le mamme non possono solo essere comparse della nostra infanzia e adesso è molto più difficile al contrario di quanto possa sembrare: fidati oggi a lasciare un bambino affacciato alla finestra che ti aspetta mentre fai la spesa! Questo significava una società completamente diversa, a tratti rurale, ma anche senza malessere, dove il bambino era protetto da una comunità solidale, dove tutti conoscevano tutti, dove si vedevano più bambini a spasso tenuti per mano dalla madre.

Nel caso di questo testo, contrariamente a quanto mi ero ripromesso, sento di dover essere didascalico, ma un po’ per ricordare a me stesso la genesi del brano.

La citazione della prima stanza è tratta dall’Odissea (libro IX), è uguale alla traduzione di Ippolito Pindemonte. Naturalmente è un omaggio, ma è funzionale al mio testo. In Omero il contesto è differente. Ulisse sta riferendo ad Alcinoo, padre di Nausicaa e re dei Feaci, ospitali abitanti dell’isola di Scheria (Corfù), delle sue vicissitudini dopo la guerra contro Troia. Spiega che anche per un navigatore come lui dopo un po’ ciò che più si desidera è la propria casa, la propria terra, che è come la madre per un bimbo che brama esser preso per mano.

Dall’essere nutrice e maggiore oggetto d’affetto per un bimbo, per una madre l’accusa e la calunnia sono sempre dietro l’angolo, come quella di non nutrire i figli. Pertanto la pur meticolosa madre di Achille – la cui figura è massimamente descritta nell’Iliade -, Teti, che rende invulnerabile il figlio immergendolo nello Stige (Achilleide di Stazio), senza bagnarne il tallone, patirà e sarà derisa per questo, benché per tutto il poema omerico si dedichi alla salvezza del figlio.

Le madri sono citate spesso e più volentieri le rare volte che sbagliano o quando fanno gesti talmente eroici che non se ne può tacere. Eppure degli sbagli sono a volte colpevoli gli stessi figli dei quali si ha pietà più che di esse.

La citazione questa volta è tratta da Metamorfosi di Ovidio, il riferimento è al XIII libro, dove si racconta il mito delle sorelle Metioche e Menippe, figlie di Orione, che si sacrificano per salvare Tebe dalla carestia e nel loro rogo funebre procreano la loro discendenza generando i Coroni. Storia simile ad altre e in particolare a quella di Coronide e Ascelpio (libro II).

Le madri, ieri come oggi, vengono immolate da un mondo assassino, come per il dramma dell’aborto, su cui per anni si sono sparsi inchiostri, tanto a morire sono loro, come accadde a Ilia (Rhea Silvia) uccisa per aver generato dei figli (Romolo e Remo). Ilia è citata nel libro VI dell’Eneide, ma la sua storia è raccontata nel dettaglio nei libri Ab Urbe condita I di Tito Livio e in Annales di Ennio e Fabio Pittore.

L’uso anche dei miei versi certo è una vanità, che tuttavia si consuma tra me e me stesso, se non altro dimostra che un pensiero alle madri talvolta lo avevo fatto. Nell’ordine i versi sono tratti da Infanzia (“…affacciato alla finestra attendo mia madre), Mihi non licet iudicare (“Si diceva che la madre/ non gli desse da mangiare”), Il manifesto (“Kyrie eleison”), Politique d’abort (“L’aborto è un grave dramma umano/ subito, suo malgrado, dalla madre”).

Tutti i brani sono pubblicati nella mia antologia “sovVERSIvi” (faccio un po’ di pubblicità, ma solo per ricordare che c’è un’edizione economica ordinabile su ilmiolibro.it – codice 1200348 – euro 13,50. I brani ovviamente sono tutti presenti anche su questo blog).

Concludendo, la struttura del brano è composta dal verso “madre” che si ripete in forma anaforica nelle quartine, da una sorta di introduzione ai versi successivi, che sono un mio verso e uno di un’opera classica.

p.s.: L’uso di “parersi”, al verso 7, è una licenza poeetica per “parrebbe”, “sembrerebbe”, per evidenti ragioni di rima. Tuttavia questa forma pronominale è attestata anche in Dante (Inferno, canto XXIX, verso 42 “potien parersi alla veduta nostra”), sebbene con il significato compatibile di “apparire”.

nei nostri versi..

24 Nei nostri versi non ci son le madri (98 – XXIII.XXXIX – 23.5 a) a 20/29.9.2021

UBIQUITÀ

Qualche tempo dopo aver riflettuto sulla “condizione” di sosia, mi è capitato di farlo sul concetto di ubiquità; sono entrambi aspetti piuttosto astratti, soprattutto l’ultimo, e molto soggettivi, eppure non sarò stato certo il solo a ragionarci sopra in maniera surreale.

Probabilmente conobbi questo termine ancora bambino, leggendo i “giornaletti” in voga allora, ma non andai mai oltre la ricerca del significato; quando lo feci, fu per una di quelle riflessioni interiori adolescenziali, per il piacere del sogno a occhi aperti, il fantasticare su situazioni idealmente desiderabili, pretendere l’impossibile oltre la realtà.

Pensandoci bene, questo lavorio della mente, senza necessità di droghe, portava un’alienazione salutare o almeno senza complicazioni nocive. La mia riflessione si faceva concreta: se esistesse l’ubiquità avremmo sì la possibilità di star bene, mentre si può star male altrove, ma potremmo anche star male due o più volte, giacché la circostanza della doppia felicità sarebbe inutile, basta essere felici una volta. Filosofia di second’ordine? Sicuramente, anche di terzo e quarto, ma qui l’utilità è tenere allenata la mente e farlo può essere una forma d’arte.

Queste riflessioni, seppure rimasugli adolescenziali, occuparono uno spazio temporale in cui avevo già fatto scelte precise in società, ne sono spia le conclusioni realistiche. Da qualche anno conoscevo il cinema surrealista o neo-surrealista e ne ero entusiasta: Buñuel, Jodorowsky, Arrabal, Makavejev, Ferreri, il primo Brass e tantissimi altri. Diversi, come Lynch e Kieslowski, li ho conosciuti dopo, ma entrarono di forza nella mia riflessione; per certi versi il primo con Mulholland Drive, ma in modo esemplare il secondo con La doppia vita di Veronica.

Questo film unisce, nel suo intento surreale, la qualità di sosia delle due protagoniste e il concetto di ubiquità. Weronika, polacca e Véronique, francese, oltre allo stesso nome, allo stesso viso, allo stesso corpo (interpretate entrambe da Irene Jacob), alla stessa passione per la musica, percepiscono la loro vita reciproca, si incontrano a Cracovia pur senza parlarsi; quando Weronika muore durante un concerto, Véronique accusa problemi cardiaci, abbandona il canto, si cura e si salva, ma Weronika resta presente nella sua vita e la riscopre in una foto scattata durante il suo viaggio in Polonia che le ritrae entrambe. Il tema del sosia e quello dell’ubiquità stimolano dunque l’arte. Nel caso di Veronica un’arte struggente che crea fortissime emozioni sullo schermo e sullo spettatore, al di là della finzione.

Qualcosa del genere accade anche nel film di Lynch, dove la protagonista Betty Elms vive due vite parallele, una di aspirante attrice in sogno e una, quale è in realtà, Diane Selwyn. Immagino esistano tanti altri esempi del genere essendo l’argomento piuttosto intrigante per costruirvi delle storie.

Il tema è naturalmente utilizzato anche in letteratura. Il curioso è che se si fa arte vera, la trattazione non è mai banale, nel senso che si presta a una marea di tematiche e situazioni. Cito un esempio, visto che sto per terminare un libro che tratta discretamente l’argomento. Non avendolo ancora concluso non c’è il rischio di spoilerare le conclusioni.

Si tratta del romanzo storico I codici del labirinto di Kate Mosse, ideale per un primo approccio alla storia dei càtari. Anche in questo caso vi sono due protagoniste, ma una vive nel medioevo e l’altra ai nostri giorni, Alaïs e Alice, una della Linguadoca e l’altra inglese, ma evidentemente con un ramo francese. Alice scoprendo gradualmente la storia dell’antica antenata, recandosi nei luoghi in cui ha vissuto, ha la sensazione di esservi già stata, brutalmente, di essere lei stessa Alaïs.

Così, al di là della consapevolezza dell’impossibilità di poter essere ubiqui, l’argomento attira la fantasia dei creativi da secoli, basta ricordare Menaechmi di Plauto, sebbene qui siamo alla commedia e alla vicenda di due gemelli identici. Potremmo dire, anche se non siamo gemelli, che in qualche modo il nostro gemello ci manca e con lui la possibilità di essere ubiqui e sosia allo stesso tempo, la sosiubiquità.

ubiquità

23 Ubiquità (55 – IX – 31.12 a) a 1.9.2021

SOSIA

Durante l’adolescenza mi è accaduto spesso che mi venisse attribuita una somiglianza. Qualche volta anche non eccessivamente gradita (sebbene i miei interlocutori si sorprendessero ritenendo evidentemente di avermi fatto un complimento).

Il primo che ricordo è un cantante piuttosto noto ai tempi, poi persone comuni in cui difficilmente mi riconoscevo, talvolta anche a me sconosciute. Il caso più clamoroso avvenne in autobus, forse a Roma, dove io stesso credetti di somigliare a qualcuno.

Insomma, qualche decina di sosia l’ho avuto, non sto qui a fare nomi, posso solo arguire, per le attribuzioni iniziali che in effetti erano complimenti, ma un adolescente che pensa di essere padrone della terra, per non dire altro e rischiare la blasfemia, è talmente narciso che al momento non accetta alcun confronto. Nelle valutazioni entrano tutta una serie di elementi che prescindono dalle sole sembianze, al punto che anche quando la somiglianza è ritenuta positiva, si schermisce, fingendosi insoddisfatto, anche perché la questione, specie in giovane età, finisce per toccare tasti molto personali, sui quali all’insaputa degli approssimativi proponenti, si continua a rimuginare.

Certo, perché scattano tanti impulsi, dalla curiosità all’esaltazione; dalla delusione all’autostima. Inizia una sorta di dialogo con il proprio io, che valuta la considerazione e tutto sommato la positività di avere dei sosia in cui ti si riconosce, qualcosa di molto diverso dalla somiglianza familiare… Non si tratta di riflessioni etniche e ancora meno razziali, ma neppure di quelle somiglianze che si riscontrano in certe comunità più o meno chiuse o meno aperte, ove tutti ci si somiglia un po’ (altro fenomeno curioso), forse per unioni tra parentele anche lontane.

La peculiarità di sosia riveste un aspetto per certi versi sociale, si gode di una certa attenzione e considerazione, al di là dell’aspetto frivolo; sotto il profilo psicologico è una sorta di stimolo, una spinta verso una società in nuce di cui possiamo renderci conto di far parte, più essere che non essere, possiamo fare tutte le considerazioni del mondo, esagerare ancora di più, tuttavia nel periodo adolescenziale può essere un valore che aiuta, l’importante è che qualche anno dopo si scoprano i veri valori, meno esteriori e più interiori

Lungi da me polemizzare su un aspetto così… sovrastrutturale? Ma sì! Eppure davvero, al di là della facile ironia, da un certo punto in poi sarei stato più interessato a che mi fossero attribuiti “sosia di idee”, della serie “Tu la pensi proprio come il tale o il talaltro”…

Dico davvero. Ognuno di noi esseri umani si forma in qualche modo fino a diventare adulto – non ho alcuna intenzione di fare ora l’elenco della sintesi delle migliaia di tipologie secondo cui ciò possa avvenire. Solitamente accade nell’ambito della vita familiare, quella con gli amici e i conoscenti, la scuola, le letture, i viaggi, le esperienze, le vicissitudini, gli amori… e via dicendo.

Ho potuto constatare che alcuni incontri e alcune letture del periodo alto adolescenziale sono state molto importanti per la mia formazione. Ovviamente queste si sono agganciate o forse fuse con un carattere già formantesi, non modificandolo, ma correggendolo, liberandolo a volte da pregiudizi o “dogmi” assunti per partito preso.

Qui i nomi posso farli, non ho remore come per quell’altra sorta di sosia. Certo, ora che ci penso, sicuramente dimenticherò tanti e certamente non attribuirò la dovuta importanza a chi ne ha avuta più di quanto io possa valutare ancora oggi; penso ai miei genitori, ai nonni, ad alcune zie e zii e in generale alla mia grande famiglia, ma qui siamo anche un po’ nell’ambito dello scontato, nell’area degli insegnamenti impercettibili, poi è arrivato un tempo in cui i maestri cominciavano ad avere nomi altisonanti, sia come idee, sia come persone… Cominciavano a chiamarsi Gesù Cristo, attraverso tanti filosofi e storici non convenzionali, anarchismo, libertarismo, radicalismo, obiezione di coscienza contro le guerre e l’uso delle armi, ma anche Ignazio Silone, Alsous Huxley, Karl Marx, Elsa Morante, Dacia Maraini, Sergio Atzeni, Lorenzo Milani, Franco Battiato, Giovanni Franzoni, Francesco Masala, Michail Dostoevskij, Lev Tolsoj, Grazia Deledda… Mi rendo conto che potrei continuare per pagine e certamente dimenticherei qualcuno di molto importante che rileggendo riterrei di aver dovuto citare, ma questo corto elenco dà già un’idea di uniformità, anche se non necessariamente comune a tantissimi e questo non è un fatto negativo.

Ecco, da questi e altri ho tratto insegnamenti che ho assorbito a modo mio e ognuno in qualche modo ha parte nelle mie idee di oggi… Se mi attribuissero, anche vagamente, uno di questi sosia di idee, ne sarei veramente gratificato.

sosia

22 Sosia (51 – VII – 23.10 a) a 30.07.2021

PAURA DELLA LIBERTÀ

Quando ciò che si scrive non è un lavoro omogeneo, nel senso che non segue un filo ben fissato nella mente, si corre il rischio di ripetere più volte gli stessi aneddoti o ragionamenti. Nulla di male, direi, perché vi sarà sicuramente una diversa esposizione che potrebbe avere il pregio del confronto tra testi scritti in diversi periodi.

Mi è venuto in mente questo perché stavo per parlare delle mie letture adolescenziali, delle quali certamente avrò già scritto, ma ora non vado a perdermi in giorni di ricerca e verifica, essendomi messo una scadenza per la scrittura di questo pezzo.

Visto che ci siamo partiamo dalla preistoria, scherzo… Comunque vi dirò che a me non spaventa contrariamente ad altri: intendo dire che non mi spaventa valorizzare il passato con tutta la sua esperienza e conoscenza, e qui mi fermo, altrimenti il discorso si fa labirintico – mutuando dal linguaggio tennistico.

Ho iniziato a leggere fin da piccolo grazie soprattutto ai libri che mi regalava costantemente una zia, successivamente grazie a un prof delle medie che ci assegnava un libro al mese (l’ho imitato in questo durante la mia esperienza di insegnamento), libri per ragazzi s’intende; ho anche letto tutti i libri di mio padre, della serie, tutto quanto mi capitava sotto mano… Ma alle scuole superiori una prof finalmente ci portò in biblioteca: quella è stata un’esperienza esaltante, anche perché avevamo facoltà di scegliere noi il libro. Devo dire che la prof molto spesso storceva il muso per le mie scelte, riteneva evidentemente che esse fossero eccessivamente impegnative per me, appena diciassettenne. La prima volta, in qualche modo, la scelta cadde su Paura della libertà di Carlo Levi. Una lettura molto complessa che aldilà di tutto mi avvicinava alla letteratura impegnata e, anche se potevo non capire alcune cose, costituiva una sorta di allenamento, sia alla lettura di tematiche serie, sia a confrontare le mie idee in nuce, riguardo a concetti come la giustizia, i tabù, la libertà, la politica stessa. Fu allora che iniziai a prendere appunti dai libri, scegliendo le frasi o i concetti che più mi colpivano.

Carlo Levi mi piaceva, era antifascista in primis, la sua figura è stata ben più importante di quella che potei acquisire allora, è l’autore di Cristo si è fermato ad Eboli.

Riguardo a Paura della libertà sono sicuro che dovrei farne una lettura più matura, ma con tutto quello che c’è da leggere, sarebbe troppo rivedere i libri già letti. Resta quella lettura, quella interpretazione e un messaggio, credo chiaro, la necessità di spezzare i tabù innaturali tra uomo e donna, da prendere invece come persone non subordinate l’uno all’altra e viceversa, in un rapporto tra uguali e differenti.

Il libro andava ben oltre il concetto che esprimeva il titolo, centrava in pieno un mio problema, un mio cruccio, quella sorta di separatezza tra mondo maschile e femminile, la necessità di frequentare costantemente quell’ “altro” mondo, cui invece venivano, specie in adolescenza, destinati solo particolari momenti, aldilà dei quali si era relegati a una frequentazione solo maschile o solo femminile. Questa “paura” inconscia generalizzata e sostanzialmente non voluta, si evidenziava nella realtà in modo palese, le fughe occasionali erano del tutto insufficienti.

Oggi qualcosa è cambiato, ma non moltissimo, il sistema dei due mondi persiste e in alcuni casi ha generato maggiori complessità e in molti casi gravi degenerazioni maschiliste.

Nel mondo atavico l’amore era visto come un fuoco, poteva scaldare, ma anche bruciare e alla donna era stato insegnato a guardarsene, a schivare il piacere, da cui l’insorgere del senso bivalente del proibito, con inibizioni da una parte e trasgressioni dall’altra, in buona parte innaturali.

Pensiamo masse di popolo, con l’eccezione di elite di vario ceto, che nel corso della storia hanno pressoché ignorato il piacere e la condivisione di esso, dando luogo alla mera accettazione dello stato di cose, alla rinuncia, ma in diversi casi alla violenza.

Salvo rare eccezioni, forse soprattutto romanzesche, la donna è stata sempre sopraffatta sia con la forza bruta, sia con dicerie sulla sua moralità, addirittura sulle sue naturali funzioni organiche mensili, causa di antichi tabù; oltre alle persecuzioni, come la caccia alle streghe, negazione dei diritti, relegazione nei focolari domestici…

Purtroppo assistiamo a un regresso costante, rispetto a quaranta anni fa, che non avremmo neppure immaginato. Il progresso rispetto ai diritti civili si è improvvisamente fermato ed è appunto regredito con l’apparizione sulla scena mondiale e anche nostrana della conservazione più reazionaria.

Mi meraviglio costantemente che uomini come Gesù e tanti altri riformatori progressisti del passato siano stati immensamente più avanti di qualunque persona considerata democratica o socialista vivente oggi, quando tutto ciò che predica il capitalismo accantona come utopie, idee e diritti assolutamente elementari e ragionevoli. E’ come se il mondo fosse diventato improvvisamente una massa di Fomà Fomič Opiskin de Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti di Fëdor Dostoevskij.

Se avete visto da qualche parte l’uomo nuovo era meglio che non si fosse mai fatto vedere…

Ancora più grave è quando questi pregiudizi si nascondono dietro qualsiasi religione, soprattutto quella Cristiana che avrebbe dovuto ripristinare l’originaria eguaglianza tra i due sessi; ma quando gli uomini si servono di qualunque mistificazione per imporre le loro idee malvagie, è più giusto trarre insegnamento non solo dai testi originari, ma addirittura delle loro severe edizioni critiche.

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21 Paura della libertà (25 – IV – 12.6 a) a 30.06.2021

SENZA ETA’

Il frastuono dei flutti è il medesimo,
nondimeno le spugne sulla rena:
l’aria è tersa, oggi, tra la Frasca e San Marco;
la spiaggia deserta da non credere,
pressoché selvaggia, non ambita.
Anch’io son lo stesso, sistematicamente,
disteso all’ombra o al sole:
la memoria scivola leggera, non ha età,
pur privata dei familiari clamori
attutiti dal vento e dalle onde.
L’ambiente naturale apre la mente:
non ho mai avuto età! Da sempre,
ma ora lo so, me l’ha detto il mare.
Dai due capi del golfo, imperterrito,
compone messaggi con suono d’onda
e li porta al poeta con brezza marina.

(Se ditta e non annoto è un guaio
perchè preciso ditta)

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Non parlerò del testo, tra i primi dittato dal mar di Sardegna, folgorante per me. La possibilità di contagio è libera e autogestibile.
L’ispirazione avvenne al solstizio d’estate, otto giorni prima dell’effettiva stesura. Questo non dovrebbe accadere, carta e matita dovrebbero essere sempre a portata di mano, benchè la redazione sia avvenuta nello stesso luogo ispiratore e il fatto che il mare la pensi come me, aiuta.
Poeesia esistenziale, metrica libera, ma non vi è alcuna influenza, almeno razionale o voluta. Segnalo tuttavia un poeta di cui avevo trascritto e dimenticato, da oltre cinque anni, alcuni versi… Ritrovatili pochi giorni fa, prima di far luce completa, mi son chiesto: e questi quando li ho composti? Erano tratti da “Bestiario” di Gabriele Pepe.
“Battitori e predatori primordiali/ dilatati nel grande afflato cacciatore/ proiettati sui mirabili acidi nucleici/ di giungla primigenia/ imbevuti d’adrenalina, di scalpitanti/ succhi gastrici provenienti dal pliocene:/ emoglobina fossile./ Ominazione avvenuta per processo predatorio/ sul filo tagliente dell’ossidiana…”
(XXIII.XXXIX – 29.6 Arb)

PAURA DELLA LIBERTA’

Il fuoco talvolta crea paure,
anche l’amore tra uomo e donna.
A costei è stato insegnato
a schivare il piacere:
da ciò derivano inibizioni
di natura sessuale,
che danno luogo a istinti bestiali.
Ignorando i sentimenti
ci si sacrifica a non amare
e al diletto sensuale;
alla rinuncia può seguire la calma,
oppure la violenza:
come il fuoco, ha due poteri,
scalda o brucia;
effetti e scelte della vita.
Quando si perde sangue
una ferita duole,
ma col tempo guarisce;
il sangue versato in amore
fa ritenere la donna sacra:
è una credenza assurda
che la rende oggetto.
I divieti creati dai tabù
frappongono barriere ai sensi:
ciò è folle quanto
lo spavento per il soccorso
o la gioia per la distruzione.
Gesù è morto perché nascesse l’uomo nuovo
non esseri intrepidi esteriormente
e colmi di vergogne dentro;
non ha chiesto la perfezione,
e non si affermi
che i pregiudizi sessuali
sono frutto della Sua parola.
Sarebbe già tanto comprendere
cos’è la purezza.
L’amore si trascina
verso il fuoco infernale,
una paura che lo schiaccia
servendosi dell’ignoranza.

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Raramente ho rinnegato il mio passato, così non lo faccio nemmeno per questo brano adolescenziale, scritto a 17 anni, in un momento in cui cominciavo ad accostarmi a letture importanti.
Paura della libertà di Carlo Levi, si rivelò piuttosto ostico, così tra passi condivisi entusiasticamente ed altri in qualche modo giustificati, volutamente fraintesi o non condivisi del tutto, ne è venuto fuori questo brano, rivisitato, giacchè la prima stesura è molto più ermetica e funambolica, e tuttavia la riporto in calce.
Nel mio diario sottolineavo la percezione, ancora confusa, del disagio che mi derivava da quella (come definirla) separatezza tra me maschio e il mondo femminile, cui mi legava un forte desiderio di socializzazione e che attribuivo ad una paura atavica delle donne nei confronti del mondo maschile. Disagio che persiste tuttora nei confronti di una radicata cultura separazionista tra generi; benchè la mia sia un’esigenza personale, mi rendo conto che non possa prescindere dal superamento di un sistema ormai eterno.
Il titolo originale del brano era Mercurio (una paura) e gli avevo appioppato una melodia disarmonica già composta, che gli dava (a mio avviso) un nonsochè di ellenico.
(IV – 12.6 A)

Mercurio (una paura)
Il dio del fuoco è una paura rossa/ e anche l’amore verso una donna;/ costei ha il timore di bruciare/ nel piacere inconsciamente;/ così si crea un mondo scontento/ che si appaga bestialmente,/ pochi uomini si contengono./
Contraddicendo i sentimenti,/ c’è chi pensa non amare un sacrificio/ e chi soffrirlo sensualmente./ Dalla calma nascono rinunce/ come pure dal timore:/ doppio potere del fuoco/ che scalda e scotta,/ la vita è alternata./
Mentre si perde sangue/ la ferita duole,/ i veri mali la sanano./ Se il sangue è versato per amore/ ogni donna diventa sacra,/ ma se con ciò la si deve evitare/ è meglio dire velenosa./
I divieti creati dall’umanità/ accentuano i dubbi tra uomo e donna./ Follemente l’aiuto è uno spavento/ e la distruzione un incanto./ L’essere rifugge le cure del profeta/ che ha sofferto per salvarlo;/ è intrepido mentre il tempo scorre/ celando dietro la vergogna./
La perfezione è irreale,/ ma neanche un briciolo/ della paola di Dio/ sta in questa paura;/ sarebbe tanto/ conoscedre la purezza./
L’amore si avvicina a Mercurio,/ regno di un fuoco infernale,/ una paura rossa che lo schiaccia/ servendosi di un potente male./

Disaccordi:
(inc.)
LA SI SOL#
LA SI LA SOL# …
(rit.)
SI LA# LA SOL
SI LA#
LA# LA
(IV – 13.2 A)