SU CONTU DE AIÀIA LIVETINA

Il racconto di nonna Livettina

Ho già avuto occasione di rammaricarmi per il fatto di non aver raccolto delle testimonianze del passato quando ciò era ben più possibile di ora, i testimoni infatti non sono eterni e non tutti sono volontari come la grande Liliana Segre.

Non mi riferisco peraltro a fatti così drammatici, ma a semplici ricordi popolari e di famiglia, ritengo che anch’essi abbiano la loro importanza.

Così io, che amo cantare e contare i nonni, non né ho raccolto abbastanza i ricordi, o perché ragazzino, o perché attento ad altro, o anche per l’inconsapevolezza dell’inesorabilità del tempo. Per queste ragioni ciò che tuttavia ho raccolto acquisisce un valore inestimabile.

Ricordo che nell’adolescenza avanzata riflettevo tra me e me sulla fortuna di avere ancora tutti e quattro i nonni. Tre di loro li ebbi ancora per molti anni e in ultimo mi restò la sola nonna Emilia, che se ne andò quando ero già due volte padre.

Nonna è stata bene fino in fondo, ci lasciò a 88 anni, ma solo fino a qualche mese prima continuava ad andare con le amiche in campagna per raccogliere asparagi, crescione, cardi o carciofini selvatici e quant’altro offriva liberamente la natura rurale.

Quando seppe che avevo registrato nonna Grazia (la nonna materna mi recitò Sas paraulas bonas [Le parole buone] una novena della tradizione popolare orale), si risentì dicendomi che con lei non lo avevo fatto, per cui promisi di provvedere.

In queste visite periodiche usavamo parlare del passato, degli avi e di altre storie, ma non avevo mai progettato una raccolta sistematica di notizie, andavo avanti in maniera casuale.

In quegli anni andavo ricostruendo la mia genealogia a tutto campo (cioè di tutti gli avi in linea diretta, sia maschile che femminile). Durante una di queste sedute in un ufficio demografico dei dintorni, mi incuriosì molto il fatto che l’impiegata mostrasse di sapere di mia bisnonna, cioè della madre di Emilia; mi disse che gliene parlava la madre e che la storia era risaputa in tutto il circondario. Ora non ricordo se nonna me ne avesse già fatto cenno, mi ripromisi di parlargliene e così appresi più nei dettagli su contu de aiàia Livetina e lo registrai.

Livettina Cabras era nata a Simala, non era molto alta, ma era carina e aveva gli occhi chiari. All’età di 26 anni sposò Santino, suo coetaneo di Ollasta, paese vicino e là si trasferì. Ebbe mia nonna a 32 anni e solo un altro figlio. Visse una vita normalissima, entrambi i figli si sposarono e misero su famiglia. Rimase vedova a 61 anni e visse fino a 78.

Mio bisnonno proveniva da una famiglia contadina agiata, ma il padre perse tutti i beni e lui dovette arrangiarsi a fare il bracciante e a un certo punto iniziò a fare il guardiano dei campi (su castiadori), ovvero sorvegliava orti, vigneti e altre proprietà affinché non vi avvenissero furti o danneggiamenti. Il suo “ufficio” era una sorta di capanna sopra una collina da dove dominava tutti i terreni al confine tra Ollasta e Gonnosnò. Questo genere di mestiere molto diffuso in Sardegna (immagino anche altrove) è scomparso solo intorno agli anni Settanta.

Parliamo dei primi anni del secolo scorso. La vita, specie quella rurale, non doveva essere particolarmente movimentata. Probabilmente il massimo dell’attività sociale si svolgeva nelle chiese o nelle osterie, a parte le ricorrenze, le sagre paesane e le riunioni di famiglia.

Le mogli, comunemente, stavano in casa, socializzavano con le vicine, si incontravano nelle rispettive abitazioni.

Un pomeriggio Livettina era a colloquio con la signora Teresa, sua vicina molto più grande di lei. A un certo punto del dialogo, che ci sfugge, l’ospite, suppongo in tono scherzoso disse a mia bisnonna: “Livetina, candu morru bengiu e ti fatzu UHHH!”. In sostanza “Quando morirò ti apparirò e ti farò spaventare”. La nonna rispose “Su mabagràbiu no at a fai!”. Una formula che si può rendere nel senso “Non farà mica una cosa del genere?” (mabagràbiu sta per fantasma), ma che si pronuncia quasi per esorcizzare l’annuncio di un sinistro comportamento. La cosa finì lì, evidentemente era palese lo scherzo, benché sgradevole.

Passarono anni e il fatto, irrilevante, fu evidentemente dimenticato, o forse persisteva nell’inconscio della nonna. La signora Teresa era già morta da tempo e anche Livettina era ormai in età adulta avanzata, si era nel tempo in cui il marito Santino faceva il guardiano e lei gli portava il pranzo al posto di vedetta (càstiu).

Un giorno in particolare, giunta al bivio per Gonnosnò, una voce la fece trasalire. Lei era tranquilla, soprappensiero.

A su càstiu ses andendi Livetina” (stai andando alla vedetta?)

Sissi, tzia Teresa…” rispose, e come in preda a un incantesimo, e pensò «…Anca adessi andendi totu cuncodrada!» (chissà dove sta andando tutta vestita a festa!).

Proseguì macchinalmente fino al posto di guardia e là come se si fosse improvvisamente svegliata esclamò:

Ti arrori! Ma tzia Teresa TruduM’est atobiada ingunis in jossu, m’at saludadu, apustis est sighida a andai…” (Oddio! Ma signora Teresa Trudu… L’ho incontrata laggiù, mi ha salutato poi ha proseguito per la sua strada…)

Ma toca! T’as a isbagliai… De una diri est morta!” (Ma và! Ti sbagli di certo, è morta da un sacco di tempo!), le rispose il marito.

La storia di questa apparizione si diffuse per tutto il territorio e ancora oggi ve ne è memoria trasmessa tra generazioni.

Non vi furono gravissime conseguenze, la bisnonna sopravvisse una ventina d’anni all’episodio, forse anche più, tuttavia il fatto la segnò profondamente e sosteneva di provare dei brividi di freddo, come una sorta di paura, all’ora in cui avvenne la visione. Fu per lei molto impressionante anche perché non aveva assolutamente in mente quella donna.

Insomma, era stato l’UHHH dimenticato.

61 su contu

19 Su contu de aiàia Livetina (61 – 3s – XII.XXI – 14.03 a) a 27.04.2021

‘TENDI ITA T’ATZORODDU

Senti cosa elucubro

L’errore, per quanto veniale, di uno che scrive è essere condizionato dal pensiero di un altro che leggerà quello scritto; non è un teorema, ma sul tema si sono esercitati fior di scrittori. Qui penso che il titolo stesso tradisca questo pensiero…

Elucubrare rivolto a se stessi, è sminuire qualcosa che si pensa non sia elevatissimo, non tanto nella forma, piuttosto nel contenuto.

A distanza di tempo la propria scrittura, se ha un poco di valore, diviene accettabile, non sempre ovviamente, c’è anche quella che deve essere resa tale, o quasi, semplicemente per una ragione documentale.

Il tema dei nonni, dell’amore per i nonni (termine con il quale comprendo tutti gli avi, almeno quelli in linea diretta), l’ho ampiamente sdoganato, credo di aver detto molto in proposito, non certo tutto.

Abbiamo visto dei brani corali e altri dedicati a un solo avo o a pochi. Il brano corale, specie se primitivo, o per meglio dire iniziale, non può prescindere dalla stima per la propria schiatta, è un rendere omaggio alla progenie della quale la storia non parla; essa tace perché non erano nobili, padroni, potenti, “eroi” o saggi studiosi… Si parla ovviamente della storia événementielle (Annales), quella che si studiava sui libri di testo, almeno fino a un recente passato, che privilegiava le vicende  dei capi di stato, dei Re e delle loro guerre, ma quella – come giustamente scriveva Tolstoj -, non è la storia dell’umanità, è la storia – forse neanche, perché contraffatta a seconda di chi la racconta – di quelle persone, al più di quelle poche famiglie: la storia di pochi contro quella della moltitudine, molto più complessa e quasi impossibile da raccontare nella sua totalità; così ci si ripara nella convenzione, nell’utilità di alcuni potenti, anche se sta emergendo un nuovo modo di scrivere la storia, che è quello delle società, delle genti, delle masse, della vita quotidiana, del popolo e delle sue tradizioni.

Allora, soprattutto tenendo a mente i falsi eroi proposti dalla storia ufficiale scritta a uso e consumo degli stati, del regime, non è mai una battuta, ma è verità, che io dica a mio nonno Giuseppe, per me sei più bello tu di Garibaldi, e parlo di una bellezza spirituale, totale, non di mera estetica.

I nonni possono essere, meglio di certi libri di testo, i testimoni della vera storia, anche orale, da tramandare, finché qualcuno la scriverà.

Così nonna Emilia mi raccontava dei suoi genitori, dei nonni e bisnonni, specie del ramo femminile di Rosa, Clara e Colomba e della sua trisavola Emilia, di cui ha ereditato il nome; della nonna Rita, che lasciò la vita a trentun anni dopo il parto e si sposò a ventitrè anni, quando per portare la sua dote si spostarono sette carri; suo marito Efisio, che le sopravvisse venticinque anni, fu vinto dallo sconforto per il fallimento patrimoniale e degli affetti.

Sono dei quadri ricostruiti tra racconto e ricerca di avi non conosciuti personalmente, ma la cui vicenda, in questo caso drammatica, intristisce, perché te li figuri e te ne dispiaci.

Come per altri versi ha la sua drammaticità la storia di mio bisnonno Paolo, mezzo varesotto e mezzo sardo, che emigrò in Argentina lasciando la moglie con diversi bambini piccoli e del quale dopo qualche anno non si seppe più nulla di sicuro, solo voci e diverse leggende metropolitane: si rifece un’altra famiglia in Argentina, fu ucciso a Genova, tornò dai parenti varesotti… La sua vicenda fu comunque determinante per il divenire familiare.

La nonna Grazietta, dolcissima e buona come il suo nome, anch’essa raccontava – è evidentemente una peculiarità femminile, i nonni erano più riservati – del padre, impegnatissimo nella confraternita del Rosario, marito della giovane Bellanna Piga, e del padre di lui Giovanni, curatore e barbiere. Nella Sardegna arcaica, la carenza di medici, costringeva solitamente i barbieri a fungere da dispensatori di rimedi per la salute e la lingua sarda rende esemplarmente tale attività con il termine “majgu”, che tuttavia rispetto al similare mago, ha un campo semantico tanto più vasto di quello che prevede una bacchetta magica, un cono stellato in capo e un caftano.

60 'tendi

18 ‘Tendi ita t’atzoroddu (60 – 2s – XII.XXI – 13.03 a) a 31.03.2021

ARREXINAS NÒBILIS

Radici nobili

L’uso del sardo, l’ho già scritto, per me è congeniale per trattare la storia familiare; ma contrariamente ai pregiudizi, sia da parte degli stessi sardi (non tutti ovviamente), sia da parte di molti colonizzatori anche del pensiero e delle idee, è una lingua buona per qualsiasi argomento, come tutte del resto.

Il concetto che voglio esprimere pensando ai miei avi, celebrandoli e onorandoli, è che l’attributo di nobile, dunque la nobiltà, non si acquisisce per ricchezza, inganno, crudeltà, perfidia, e via dicendo (nella storia abbiamo avuto tanti casi del genere), la vera nobiltà è la bontà d’animo, il soccorso dei più deboli, il lavoro onesto, la pratica della giustizia, dell’uguaglianza, dunque valori positivi e non negativi.

Perciò pensando ai miei avi lavoratori, soprattutto a quelli che ho conosciuto, devo concludere che essi sono nobili e sono resi tali dalla terra che molti hanno lavorato, dal loro lavoro di maestri di muro, di falegnami, pastori, operai, artigiani, loro sono i miei rex, i miei principi, benché non siano stati ricchi di ori e denari.

Che ragione ci può essere per concepire quella che potrebbe avere l’aria di una polemica, espressa peraltro con la figura retorica della ripetizione? Beh, la ragione è che la storia dell’umanità, ci offre in tutti i tempi degli esempi contradditori evidenti, anche sotto il profilo espressivo, linguistico.

La questione non è semplice perché ci sono delle scuole, anche ad altissimo livello, che stabiliscono quali siano i termini da usare per definire alcune categorie, che hanno anche il potere di fissare una metodologia che bene o male tutti sono chiamati a rispettare; metodologia peraltro che si studia negli atenei e forse ha il difetto di costruire storici troppo uguali a se stessi; non tutti hanno il coraggio di avere una propria lettura degli avvenimenti, una lettura davvero obiettiva, spesso occorre conformarsi all’accademico più forte, alla corrente dominante e le voci che urlano nel deserto restano inascoltate, almeno finché i tempi non diventano maturi per dover accettare verità anche scomode.

Nel nostro tempo abbiamo avuto una miriade di esempi di addomesticamento della storia a interessi di parte, di stati e di potentati; ripristinare la verità non è semplice, sia per la storia remota che per quella contemporanea. Inoltre vi è la tendenza a voler far dire alla storia assodata, certa e obiettiva, cose che non stanno né in cielo né in terra, anche semplicemente per convenienze politiche.

Basti citare lo stragismo di qualche decennio fa, il negazionismo rispetto al nazismo, i vari tentativi di giustificare il fascismo, i clamorosi esempi delle guerre in Vietnam e in Iraq, capi di stato che basano la loro attività sulla menzogna e quando vengono accusati accusano gli altri di falsità.

Nello stato italiano ne sono successe di belle dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. Oltre ai vari fatti clamorosi più o meno accertati e con i responsabili individuati e in qualche caso condannati, si è assistito a un clamoroso cambiamento del modo di far politica, metodi che oggi sono all’ordine del giorno: campagna elettorale permanente, uso della cronaca o degli eventi sempre in maniera elettoralistica, tacitamento delle minoranze…

Ma l’avvento al governo della destra ha comportato l’avvio di diversi disegni occulti che hanno portato al cambiamento della società: uno è stato la demolizione progressiva delle potenzialità pubbliche, in primo luogo della scuola, della sanità, dell’informazione e della magistratura. Riguardo ai primi tre constatiamo oggi, per viverlo sulla nostra pelle, che ci sono riusciti, forse la magistratura resiste ancora, almeno a sprazzi.

Lo scopo è di una evidenza imbarazzante: ottenere una società più ignorante, incapace di reagire alle ingiustizie, renderla più debole in modo che non debba pensare ai diritti, rovesciare l’economia sociale, accentuando la disparità tra ricchi e poveri, controllare l’informazione in modo che l’opinione pubblica sia bombardata da notizie verosimili e la verità sia disponibile per un numero sempre minore di persone.

Questo stato di cose, questa strategia, ha contaminato anche i partiti potenzialmente avversari della conservazione, resi incapaci di difendere adeguatamente i più deboli, per la paura di perdere voti evitando di inseguire le idee reazionarie della destra, specie l’ingannevole politica liberista, nella convinzione che la gente desideri quel genere di economia, come se la popolazione italiana fosse zeppa di nababbi del capitalismo.

Vero è invece che la strategia cui si faceva cenno ha reso la popolazione incapace di valutare per bene quali siano i propri interessi e individuare chi possa portarli avanti, e sicuramente non lo potranno fare né i populisti, né i fascisti, ma neppure il liberismo economico, spada nel fianco dei lavoratori e dei meno abbienti.

64 nobilis

12 Arrexinas nòbilis (64 – 6s – XIII.XXIVb – 31.07 a) a 28.09.2020

BISURAS DE AIÀIUS

Visioni ataviche

Non ho scritto tantissimo in sardo, che tuttavia è la mia lingua madre, lingua che ha risuonato nelle mie orecchie fin dalla nascita e per tutta la mia infanzia, certo prevalentemente.

Ho imparato a parlare il sardo dall’ascolto, giacché i Miei mi si rivolgevano in italiano; nella nostra condizione di colonia la propaganda scolastica, istituzionale, poi radiofonica e televisiva, avevano ampiamente emarginato la nostra lingua in favore di un’altra estranea, straniera, che, a partire dalla Scuola Elementare. ha preso il sopravvento, mentre vi era l’assoluto divieto, espresso esplicitamente nelle classi, con tanto di punizioni, di esprimersi in lingua sarda.

La saccenteria delle istituzioni, il loro scarso senso pedagogico, non intuiva che così facendo rendevano il sardo proibito e rivoluzionario. Così con gli amici si parlava in sardo, si manteneva viva la lingua, salvando, se non il bilinguismo, la diglossia.

Nella mia scrittura, a parte qualche sconfinamento nell’inglese, e più ampiamente nel sardo, prevale la lingua acquisita che specie nella scrittura abbiamo imparato a dominare più della nostra.

Il discorso potrebbe essere lunghissimo, ma ho fatto questa premessa solo per dire che quando scrivo in sardo, oggetto dei miei scritti sono prevalentemente gli ancestors, come usano dire i nativi americani. E’ così perché, benché abbia seguito una decina di corsi di sardo moderno e mi rapporti con diverse persone nella mia lingua madre, la lingua sarda reca in se quella ricchezza ancestrale equivalente al sogno immaginifico della storia passata, della vita del passato, da parte di un bambino, come una sorta di calentura, di qualcosa tra la visione e il delirio.

Le mie visioni ataviche sono questo: una nebbia velata che avvolge un paesaggio nuragico, come un fermo immagine che si sblocca e comincia la vita, la gente si muove, in quel tempo arcano in cui guardo i volti, ma non riconosco nessuno.

Il tempo scorre veloce, mi proietta a Villa Barumeli, paese scomparso vicino al mio e di cui ha ereditato il territorio, oltre quattrocento anni fa, là, tra la folla sparuta scorgo i primi avi che si rivolgono un saluto con un cenno del loro bastone, duecentenari… Ancora meno nitidamente ne scorgo degli altri: Bardilio con Cicita, Raimondo Piga e Rita, Emilia con Narciso, Vincenzo e Cisco Luiso, Raimonda con Vincenzo…

Vedo poi il mio avo Antonio, sindaco, con Giovanni Piras, che bussano alla porta del loro compare Antonio Minai… apre nonna Bellanna Concu, che poi si ritira. I tre complottano contro il re e i piemontesi, mentre le donne si preoccupano e maledicono Carlo Feroce, alla fine del Settecento…

Una semplice visione in cui è evidente la dimensione onirica, dove avi di n generazioni si muovono alla fine del Settecento immersi tra storia e vita quotidiana.

Visione dove però il tempo storico è allargato e si confonde; dove avi sconosciuti per evidenti ragioni, sono però conosciuti attraverso lo studio, alcuni solo per nome, altri maggiormente perché hanno avuto un ruolo nella comunità a cavallo tra Settecento e Ottocento, quando in Sardegna imperversava il viceré Feroce, quel Carlo Felice, poi re sabaudo, che la storia dei “vincenti” voleva rendere “simpatico” e “benefattore”, ma che la saggezza popolare aveva ben stigmatizzato con quel suo appellativo inequivocabile.

Non è il solo caso in cui la storia viene strumentalizzata dai tiranni, quello che è ora lo stato italiano, ha diversi esempi di “eroi” fasulli, dal più noto Garibaldi al più odioso generale Cialdini, entrambi stragisti. Convinti con i loro padroni sabaudi che un paese geograficamente “omogeneo”, si dovesse unire a colpi di fucile, incendio di villaggi, stupri e altre nefandezze terribili. Da loro l’origine di uno stato come quello attuale, disunito, sbilanciato economicamente e socialmente, assolutamente non solidale, dove la politica cavalca le divisioni e ogni rivendicazione egoistica, semplicemente per raggiungere il potere. Questa è l’eredità sabauda ottenuta peraltro attraverso il fascismo, da loro sponsorizzato per vent’anni.

Noi, esponenti della Costante Resistenziale di Sardegna, secondo una storica e obiettiva definizione del nostro più illustre archeologo e storico Giovanni Lilliu, che conosciamo l’importanza dei simboli, in questi anni dibattiamo sulla rimozione della statua del tiranno Carlo Feroce dalla piazza centrale di Cagliari e sulla pulizia della toponomastica viaria della Sardegna dalle imposizioni sabaude e fasciste, dibattito che si sta sviluppando anche nella penisola e nel mondo intero.

E’ bene conoscere la Storia, quella vera, ma celebrare tiranni e assassini dei popoli significa ridicolizzarla, è un insulto a chi ha subito i soprusi e al mondo intero.

63 bisuras

11 – Bisuras de aiàius (63 – 5s – XIII.XXIVa – 31.07 a) a 31.08.2020

ARREXINAS NÒBILIS

…E custa
po si fai sciri
ca sa nobilesa
est prus parenti
a terra e traballu
chi a sa richesa.
De reis e prìntzipis
mira sa mata:
Giusepi, maistu ‘e linna,
fillu de Arrafiebi, pastori,
fillu de Antoni, manòbara,
fillu de Frantziscu, picaperderi,
fillu de Antoni, maist’ ‘e muru;
comenti a Tomasu,
fillu de Paulu, maist’ ‘e muru,
fillu de Giuannantoi, maist’ ’e muru,
fillu de Tomasu, maist’ ‘e muru;
e Santinu, massaju,
fillu de Afisiu, massaju,
fillu de Luisu, massaju;
e Mundicu, giornaderi,
fillu de Giuanni, brabieri,
fillu de Luisu Maria, majgu.nobiltà,mira,lavoratori,mestieri,genealogia,ripetizione,gioco,lingua,dialetto,avi

Un altro omaggio ai miei nobili avi, con un semplice concetto.
L’uso della ripetizione come figura retorica è d’ispirazione biblica, nientemeno, o se preferite, evangelica.  
Diciamo che può anche essere un gioco cui potete cimentarvi con qualche piccola ricerca: vi servono solo nome e mestiere di quindici progenitori, partendo dai quattro nonni a digradare nel tempo. Buon lavoro… poi mi fate leggere, magari nella vostra lingua locale… Sarebbe bello realizzare in questo modo una genealogia delle vere famiglie nobili, quelle dei lavoratori.
(XIII.XXIVb-31.07 A)

Traduzione:
RADICI NOBILI
…E questa/ per farvi sapere/ che la nobiltà/ è più affine/ alla terra e al lavoro/ che alla ricchezza./
Di re e principi/ ecco l’albero genealogico:
Giuseppe, falegname,/ figlio di Raffaele, pastore/ figlio di Antonio, manovale,/ figlio di Francesco, scalpellino,/ figlio di Antonio, muratore;/ come Tommaso,/ figlio di Paolo, muratore,/ figlio di Giovanni Antonio, muratore,/ figlio di Tommaso, muratore;/ e Santino, contadino, / figlio di Efisio, contadino,/ figlio di Luigi, contadino;/ e Raimondo, bracciante,/ figlio di Giovanni, barbiere,/ figlio di Luigi Maria, guaritore./

BISURAS DE JAIUS

Unu velu de fumu
ammantat is nuraxis,
pustis torrat sa vida;
gintòria chi si movit,
no connoxiu aiàius…
A bidda Barumeli
unu pesat su fusti,
un atru arraspundit:
nannais Frantziscu e
Luisu Maria Mebi, cad’
a is duxentus annus,
is aiàius prus crarus.
Prus pagu pretzisu biu
Badriliu cun Cicita,
Remundu Piga e Rita,
Amilia cun Nracisu,
Bissent’e Ciscu Luisu,
Remunda cun Bissenti…
Su sìndigu Antoni
impari a Giuanni Piras,
dubbat a s’enn’ ‘e gopai
Antoni Minai de Abas.
Bellanna Concu aperit
e si nci strésiat luegu.
Issus cumprotant contr’a
su re e is piemontesus.
Maria Theresa e Suia
in domu in pentzamentu
frastimant Carlu Feroxi;
su setixentus finit…

In questo secondo brano della serie iniziata con Innantis de Eva, è più evidente la dimensione onirica. Avi di n generazioni si muovono alla fine del settecento immersi tra storia e vita quotidiana.
(XIII.XXIVa-31.07 A)

a mio padre. 18.09.2009

Traduzione:
ATAVICHE VISIONI
Un velo fumoso/ avvolge i nuraghi,/ poi torna la vita;/ moltitudini si muovono,/ non riconosco avi…/
A villa Barumeli/ un uomo solleva il bastone*/ e un altro risponde:/ i nonni Francesco/ e Luigi Maria Melis, verso/ i duecento anni,/ sono gli avi più nitidi./
Meno chiaramente vedo/ Bardilio con Francesca,/ Raimondo Piga e Rita,/ Emilia con Narciso,/ Vincenza e Francesco Luigi,/ Raimonda con Vincenzo…/
Il sindaco Antonio/ insieme a Giovanni Piras,/ bussa alla porta del compare/ Antonio Minai di Ales./ Bellanna Concu apre/ e si ritira subito./ Loro complottano contro/ il re e i piemontesi./
Maria Teresa e Sofia/ in casa in ansia/ maledicono Carlo Feroce;**/il settecento finisce…/

*   antico modo di salutare da parte dei pastori
**  soprannome dato dai sardi a Carlo Felice quando era vicerè  

SU CONTU DE IAIA LIVETTINA

Sa di’ fia chistionendi
cun tzia Teresa Trudu,
mi iat nau: “O Livettina,
candu morru, bengiu e ti fatzu UH!”
“Su mabagràbiu no at a fai!”
di ia nau deu atzicada,
agoa mi ndi fia scarescia,
fiat ingiogatzada.
Una di’ me in s’antzianidadi
m’agatau me in su satu
po ci potai su prangiu
a Santinu, ca fiat in su castiu.
Lompia a su biviu ‘e Gonnanò
una boxi mi ‘ndi fait pesai paris,
poita fia pentzendi incantada:
“A su castiu ses andendi Livettina?”
“Sissi, tzia Teresa…” coitai a nai,
“…anc’adessi andendi totu cuncodrada?”
Tenendi pressi sighii fintzas a susu
e innì comenti chi mi ndi fessi scidada:
“Ti arrori! Ma tzia Teresa Trudu…
m’est atobiada ingui in giossu,
m’at saludau, apustis est sighida a andai …”
“Ma toca! T’as a sbagliai … est mota”.
E de sa di’ m’intrat su frius
a sa matessi ora chi d’ia bida;
e fiat propriu issa, no dda fia pentzendi,
giai mi dd iat nau ca m’iat a ai fattu “UH!”

61 su contu

Vi narro di Livettina Cabras, come riferitomi da mia nonna, sua figlia. La Sardegna conserva molte storie di contadini e pastori; si tratta di racconti di terra, pregni di magia, incantesimi, arcani, che abbiamo vissuto da bambini vicino ai nostri avi. Nelle case antiche sentivamo la presenza delle loro anime, capaci di difenderci, di vezzeggiarci, di volerci bene. Quando abbattiamo una casa antica, anche un solo muro, cacciamo loro, il nostro Sangue.
Ho tanto caro il ricordo di questa bisnonna, sebbene l’abbia conosciuta solo attraverso le parole della mia nonna paterna. Questo fatto fece epoca all’inizio del secolo scorso nella nostra zona.
(XII.XXI-14.03 A)

Traduzione:
LA STORIA DI NONNA LIVETTINA
Quel giorno stavo parlando/ con signora Teresa Trudu/ che mi disse “Livettina,/ quando morirò, verrò da te e ti farò spaventare”./ “Non vorrà fare questo!”/ le dissi impaurita,/ poi me ne dimenticai,/ stava scherzando./
Un giorno, ormai anziana,/ mi trovavo in campagna/ per portare il pranzo a Santino (il marito, ndt)/ che era nel suo posto di guardia./ Giunta al bivio di Gonnosnò/ una voce mi fece trasalire,/ in quanto ero soprappensiero:/ “Livettina stai andando alla vedetta?”/ “Si, signora Teresa…” mi affrettai a dire,/  “…chissà dove sta andando tutta vestita a festa!?”/ Avendo fretta continuai a salire/ e là come se mi fossi svegliata:/ “Oddio! Ma signora Teresa Trudu…/ l’ho incontrata laggiù,/ mi ha salutato poi ha proseguito per la sua strada…”/ “Ma và! Ti sbagli di certo, è morta!”/
Da quel giorno avverto brividi di freddo/ alla stessa ora che la vidi;/ era proprio lei, neanche la pensavo,/ me lo aveva detto che mi avrebbe spaventato./

glossarietto:
mabagrabiu = spettro
ingiogatzada = giocherellona
castiu = capanna di guardiano campestre
arrori = disgrazia

‘TENDI ITA T’ATZORODDU

‘Tendi ita t’atzoròddu,
ca stimu prus chi meda
aiàius e aiàias
de su tèmpus passau.
De íssus s’ istoria cìtiri
poita no funt nòbilis,
meris o erois,
ni sàbius chi ant istudiau.
Arrafieli, Giuannica, Antoi,
Maria Pepa, Mònica, Frantziscu:
nonnu Giusepi, po mei,
de Garibaldi ses prus bellu tui.
‘Ta prexèri fueddai cun nonna Amília
de aiàiu Santinu, Mundìcu e Giosuè,
Luisu, Rosa, Clara, Columba,
e de Amìlia Atzei bisàia ‘e babbu suu.
De Rita Urràci morta a trintun annu,
apùsti de dus fillus e sposa a bintitres,
candu po ci portai sa doda
fiant partìus seti carrus de Figu;
cun su pobìddu Afisiu
finìu in dd una funtana,
de chi iat pèrdiu is bènis
bintu ‘e su pentzamèntu.
Sighendi c’est Tomasu e Maddalena,
Juanni Antoi, Mariàngela e Perdu,
Pasqua, Bardìliu, Caterina
e iaiu Paulu sparèssiu in Argentina.
Grazietta, Bellanna e Battistina,
Sarbadori, Micheli e Nicolina,
Annica e Juanni su maìgu
e Arramùndu Mebi cunfrara.
Aìci finu.

60 'tendi

Altra lunga pausa prima di trovare nuovi versi, e in lingua sarda, un omaggio ai miei avi, scritto in fretta per un premio letterario, ma molto sentito.
Devo osservare che gli anni di silenzio sono stati sicuramente tra i più intensi e felici della mia vita, sono successe cose molto importanti. Era poesia la vita stessa e forse è vero che si scrive di più quando qualcosa non va, ma non voglio farne un teorema.
Vi lascio godere la musicalità della lingua sarda, se qui c’è, poi vi tradirò il brano, anche perché, d’ora in poi, il sardo la farà da padrone per un bel pezzo.
(XII.XXI-13.03 A)

Traduzione:
SENTI COSA TI ESCOGITO
Senti cosa ti escogito/ poiché amo tantissimo/ nonni, nonne/ e tutti i miei avi./
Riguardo loro la storia tace/ non essendo nobili,/ padroni o eroi,/ né sapienti che hanno studiato./
Raffaele, Giovanna, Antonio,/ Maria Giuseppa, Monica, Francesco:/ nonno Giuseppe, per me/ sei meglio tu di Garibaldi./
Che piacere conversare con nonna Emilia/ di nonno Santino, Raimondo e Giosuè,/ Luigi, Rosa, Clara e Colomba/ e di Emilia Atzei, bisnonna di suo padre./ Di Rita Urraci, morta a trentun anni,/ dopo due figli e sposatasi a ventitré,/ quando per trasportare la dote/ si erano mossi sette carri da Figu;/ con il marito Efisio/ finito in un pozzo/ dopo aver perso i beni/ vinto dall’angoscia./
Continuando ci sono Tommaso e Maddalena,/ Giovanni Antonio, Mariangela e Pietro,/ Pasqua, Bardilio, Caterina/ e nonno Paolo scomparso in Argentina./ Grazietta, Bella Anna e Battistina,/ Salvatore, Michele e Nicolina,/ Annetta, Giovanni il mago/ e Raimondo Melis, confratello./
Così finisco./