SU CONTU DE AIÀIA LIVETINA

Il racconto di nonna Livettina

Ho già avuto occasione di rammaricarmi per il fatto di non aver raccolto delle testimonianze del passato quando ciò era ben più possibile di ora, i testimoni infatti non sono eterni e non tutti sono volontari come la grande Liliana Segre.

Non mi riferisco peraltro a fatti così drammatici, ma a semplici ricordi popolari e di famiglia, ritengo che anch’essi abbiano la loro importanza.

Così io, che amo cantare e contare i nonni, non né ho raccolto abbastanza i ricordi, o perché ragazzino, o perché attento ad altro, o anche per l’inconsapevolezza dell’inesorabilità del tempo. Per queste ragioni ciò che tuttavia ho raccolto acquisisce un valore inestimabile.

Ricordo che nell’adolescenza avanzata riflettevo tra me e me sulla fortuna di avere ancora tutti e quattro i nonni. Tre di loro li ebbi ancora per molti anni e in ultimo mi restò la sola nonna Emilia, che se ne andò quando ero già due volte padre.

Nonna è stata bene fino in fondo, ci lasciò a 88 anni, ma solo fino a qualche mese prima continuava ad andare con le amiche in campagna per raccogliere asparagi, crescione, cardi o carciofini selvatici e quant’altro offriva liberamente la natura rurale.

Quando seppe che avevo registrato nonna Grazia (la nonna materna mi recitò Sas paraulas bonas [Le parole buone] una novena della tradizione popolare orale), si risentì dicendomi che con lei non lo avevo fatto, per cui promisi di provvedere.

In queste visite periodiche usavamo parlare del passato, degli avi e di altre storie, ma non avevo mai progettato una raccolta sistematica di notizie, andavo avanti in maniera casuale.

In quegli anni andavo ricostruendo la mia genealogia a tutto campo (cioè di tutti gli avi in linea diretta, sia maschile che femminile). Durante una di queste sedute in un ufficio demografico dei dintorni, mi incuriosì molto il fatto che l’impiegata mostrasse di sapere di mia bisnonna, cioè della madre di Emilia; mi disse che gliene parlava la madre e che la storia era risaputa in tutto il circondario. Ora non ricordo se nonna me ne avesse già fatto cenno, mi ripromisi di parlargliene e così appresi più nei dettagli su contu de aiàia Livetina e lo registrai.

Livettina Cabras era nata a Simala, non era molto alta, ma era carina e aveva gli occhi chiari. All’età di 26 anni sposò Santino, suo coetaneo di Ollasta, paese vicino e là si trasferì. Ebbe mia nonna a 32 anni e solo un altro figlio. Visse una vita normalissima, entrambi i figli si sposarono e misero su famiglia. Rimase vedova a 61 anni e visse fino a 78.

Mio bisnonno proveniva da una famiglia contadina agiata, ma il padre perse tutti i beni e lui dovette arrangiarsi a fare il bracciante e a un certo punto iniziò a fare il guardiano dei campi (su castiadori), ovvero sorvegliava orti, vigneti e altre proprietà affinché non vi avvenissero furti o danneggiamenti. Il suo “ufficio” era una sorta di capanna sopra una collina da dove dominava tutti i terreni al confine tra Ollasta e Gonnosnò. Questo genere di mestiere molto diffuso in Sardegna (immagino anche altrove) è scomparso solo intorno agli anni Settanta.

Parliamo dei primi anni del secolo scorso. La vita, specie quella rurale, non doveva essere particolarmente movimentata. Probabilmente il massimo dell’attività sociale si svolgeva nelle chiese o nelle osterie, a parte le ricorrenze, le sagre paesane e le riunioni di famiglia.

Le mogli, comunemente, stavano in casa, socializzavano con le vicine, si incontravano nelle rispettive abitazioni.

Un pomeriggio Livettina era a colloquio con la signora Teresa, sua vicina molto più grande di lei. A un certo punto del dialogo, che ci sfugge, l’ospite, suppongo in tono scherzoso disse a mia bisnonna: “Livetina, candu morru bengiu e ti fatzu UHHH!”. In sostanza “Quando morirò ti apparirò e ti farò spaventare”. La nonna rispose “Su mabagràbiu no at a fai!”. Una formula che si può rendere nel senso “Non farà mica una cosa del genere?” (mabagràbiu sta per fantasma), ma che si pronuncia quasi per esorcizzare l’annuncio di un sinistro comportamento. La cosa finì lì, evidentemente era palese lo scherzo, benché sgradevole.

Passarono anni e il fatto, irrilevante, fu evidentemente dimenticato, o forse persisteva nell’inconscio della nonna. La signora Teresa era già morta da tempo e anche Livettina era ormai in età adulta avanzata, si era nel tempo in cui il marito Santino faceva il guardiano e lei gli portava il pranzo al posto di vedetta (càstiu).

Un giorno in particolare, giunta al bivio per Gonnosnò, una voce la fece trasalire. Lei era tranquilla, soprappensiero.

A su càstiu ses andendi Livetina” (stai andando alla vedetta?)

Sissi, tzia Teresa…” rispose, e come in preda a un incantesimo, e pensò «…Anca adessi andendi totu cuncodrada!» (chissà dove sta andando tutta vestita a festa!).

Proseguì macchinalmente fino al posto di guardia e là come se si fosse improvvisamente svegliata esclamò:

Ti arrori! Ma tzia Teresa TruduM’est atobiada ingunis in jossu, m’at saludadu, apustis est sighida a andai…” (Oddio! Ma signora Teresa Trudu… L’ho incontrata laggiù, mi ha salutato poi ha proseguito per la sua strada…)

Ma toca! T’as a isbagliai… De una diri est morta!” (Ma và! Ti sbagli di certo, è morta da un sacco di tempo!), le rispose il marito.

La storia di questa apparizione si diffuse per tutto il territorio e ancora oggi ve ne è memoria trasmessa tra generazioni.

Non vi furono gravissime conseguenze, la bisnonna sopravvisse una ventina d’anni all’episodio, forse anche più, tuttavia il fatto la segnò profondamente e sosteneva di provare dei brividi di freddo, come una sorta di paura, all’ora in cui avvenne la visione. Fu per lei molto impressionante anche perché non aveva assolutamente in mente quella donna.

Insomma, era stato l’UHHH dimenticato.

61 su contu

19 Su contu de aiàia Livetina (61 – 3s – XII.XXI – 14.03 a) a 27.04.2021

‘TENDI ITA T’ATZORODDU

Senti cosa elucubro

L’errore, per quanto veniale, di uno che scrive è essere condizionato dal pensiero di un altro che leggerà quello scritto; non è un teorema, ma sul tema si sono esercitati fior di scrittori. Qui penso che il titolo stesso tradisca questo pensiero…

Elucubrare rivolto a se stessi, è sminuire qualcosa che si pensa non sia elevatissimo, non tanto nella forma, piuttosto nel contenuto.

A distanza di tempo la propria scrittura, se ha un poco di valore, diviene accettabile, non sempre ovviamente, c’è anche quella che deve essere resa tale, o quasi, semplicemente per una ragione documentale.

Il tema dei nonni, dell’amore per i nonni (termine con il quale comprendo tutti gli avi, almeno quelli in linea diretta), l’ho ampiamente sdoganato, credo di aver detto molto in proposito, non certo tutto.

Abbiamo visto dei brani corali e altri dedicati a un solo avo o a pochi. Il brano corale, specie se primitivo, o per meglio dire iniziale, non può prescindere dalla stima per la propria schiatta, è un rendere omaggio alla progenie della quale la storia non parla; essa tace perché non erano nobili, padroni, potenti, “eroi” o saggi studiosi… Si parla ovviamente della storia événementielle (Annales), quella che si studiava sui libri di testo, almeno fino a un recente passato, che privilegiava le vicende  dei capi di stato, dei Re e delle loro guerre, ma quella – come giustamente scriveva Tolstoj -, non è la storia dell’umanità, è la storia – forse neanche, perché contraffatta a seconda di chi la racconta – di quelle persone, al più di quelle poche famiglie: la storia di pochi contro quella della moltitudine, molto più complessa e quasi impossibile da raccontare nella sua totalità; così ci si ripara nella convenzione, nell’utilità di alcuni potenti, anche se sta emergendo un nuovo modo di scrivere la storia, che è quello delle società, delle genti, delle masse, della vita quotidiana, del popolo e delle sue tradizioni.

Allora, soprattutto tenendo a mente i falsi eroi proposti dalla storia ufficiale scritta a uso e consumo degli stati, del regime, non è mai una battuta, ma è verità, che io dica a mio nonno Giuseppe, per me sei più bello tu di Garibaldi, e parlo di una bellezza spirituale, totale, non di mera estetica.

I nonni possono essere, meglio di certi libri di testo, i testimoni della vera storia, anche orale, da tramandare, finché qualcuno la scriverà.

Così nonna Emilia mi raccontava dei suoi genitori, dei nonni e bisnonni, specie del ramo femminile di Rosa, Clara e Colomba e della sua trisavola Emilia, di cui ha ereditato il nome; della nonna Rita, che lasciò la vita a trentun anni dopo il parto e si sposò a ventitrè anni, quando per portare la sua dote si spostarono sette carri; suo marito Efisio, che le sopravvisse venticinque anni, fu vinto dallo sconforto per il fallimento patrimoniale e degli affetti.

Sono dei quadri ricostruiti tra racconto e ricerca di avi non conosciuti personalmente, ma la cui vicenda, in questo caso drammatica, intristisce, perché te li figuri e te ne dispiaci.

Come per altri versi ha la sua drammaticità la storia di mio bisnonno Paolo, mezzo varesotto e mezzo sardo, che emigrò in Argentina lasciando la moglie con diversi bambini piccoli e del quale dopo qualche anno non si seppe più nulla di sicuro, solo voci e diverse leggende metropolitane: si rifece un’altra famiglia in Argentina, fu ucciso a Genova, tornò dai parenti varesotti… La sua vicenda fu comunque determinante per il divenire familiare.

La nonna Grazietta, dolcissima e buona come il suo nome, anch’essa raccontava – è evidentemente una peculiarità femminile, i nonni erano più riservati – del padre, impegnatissimo nella confraternita del Rosario, marito della giovane Bellanna Piga, e del padre di lui Giovanni, curatore e barbiere. Nella Sardegna arcaica, la carenza di medici, costringeva solitamente i barbieri a fungere da dispensatori di rimedi per la salute e la lingua sarda rende esemplarmente tale attività con il termine “majgu”, che tuttavia rispetto al similare mago, ha un campo semantico tanto più vasto di quello che prevede una bacchetta magica, un cono stellato in capo e un caftano.

60 'tendi

18 ‘Tendi ita t’atzoroddu (60 – 2s – XII.XXI – 13.03 a) a 31.03.2021

BISURAS DE AIÀIUS

Visioni ataviche

Non ho scritto tantissimo in sardo, che tuttavia è la mia lingua madre, lingua che ha risuonato nelle mie orecchie fin dalla nascita e per tutta la mia infanzia, certo prevalentemente.

Ho imparato a parlare il sardo dall’ascolto, giacché i Miei mi si rivolgevano in italiano; nella nostra condizione di colonia la propaganda scolastica, istituzionale, poi radiofonica e televisiva, avevano ampiamente emarginato la nostra lingua in favore di un’altra estranea, straniera, che, a partire dalla Scuola Elementare. ha preso il sopravvento, mentre vi era l’assoluto divieto, espresso esplicitamente nelle classi, con tanto di punizioni, di esprimersi in lingua sarda.

La saccenteria delle istituzioni, il loro scarso senso pedagogico, non intuiva che così facendo rendevano il sardo proibito e rivoluzionario. Così con gli amici si parlava in sardo, si manteneva viva la lingua, salvando, se non il bilinguismo, la diglossia.

Nella mia scrittura, a parte qualche sconfinamento nell’inglese, e più ampiamente nel sardo, prevale la lingua acquisita che specie nella scrittura abbiamo imparato a dominare più della nostra.

Il discorso potrebbe essere lunghissimo, ma ho fatto questa premessa solo per dire che quando scrivo in sardo, oggetto dei miei scritti sono prevalentemente gli ancestors, come usano dire i nativi americani. E’ così perché, benché abbia seguito una decina di corsi di sardo moderno e mi rapporti con diverse persone nella mia lingua madre, la lingua sarda reca in se quella ricchezza ancestrale equivalente al sogno immaginifico della storia passata, della vita del passato, da parte di un bambino, come una sorta di calentura, di qualcosa tra la visione e il delirio.

Le mie visioni ataviche sono questo: una nebbia velata che avvolge un paesaggio nuragico, come un fermo immagine che si sblocca e comincia la vita, la gente si muove, in quel tempo arcano in cui guardo i volti, ma non riconosco nessuno.

Il tempo scorre veloce, mi proietta a Villa Barumeli, paese scomparso vicino al mio e di cui ha ereditato il territorio, oltre quattrocento anni fa, là, tra la folla sparuta scorgo i primi avi che si rivolgono un saluto con un cenno del loro bastone, duecentenari… Ancora meno nitidamente ne scorgo degli altri: Bardilio con Cicita, Raimondo Piga e Rita, Emilia con Narciso, Vincenzo e Cisco Luiso, Raimonda con Vincenzo…

Vedo poi il mio avo Antonio, sindaco, con Giovanni Piras, che bussano alla porta del loro compare Antonio Minai… apre nonna Bellanna Concu, che poi si ritira. I tre complottano contro il re e i piemontesi, mentre le donne si preoccupano e maledicono Carlo Feroce, alla fine del Settecento…

Una semplice visione in cui è evidente la dimensione onirica, dove avi di n generazioni si muovono alla fine del Settecento immersi tra storia e vita quotidiana.

Visione dove però il tempo storico è allargato e si confonde; dove avi sconosciuti per evidenti ragioni, sono però conosciuti attraverso lo studio, alcuni solo per nome, altri maggiormente perché hanno avuto un ruolo nella comunità a cavallo tra Settecento e Ottocento, quando in Sardegna imperversava il viceré Feroce, quel Carlo Felice, poi re sabaudo, che la storia dei “vincenti” voleva rendere “simpatico” e “benefattore”, ma che la saggezza popolare aveva ben stigmatizzato con quel suo appellativo inequivocabile.

Non è il solo caso in cui la storia viene strumentalizzata dai tiranni, quello che è ora lo stato italiano, ha diversi esempi di “eroi” fasulli, dal più noto Garibaldi al più odioso generale Cialdini, entrambi stragisti. Convinti con i loro padroni sabaudi che un paese geograficamente “omogeneo”, si dovesse unire a colpi di fucile, incendio di villaggi, stupri e altre nefandezze terribili. Da loro l’origine di uno stato come quello attuale, disunito, sbilanciato economicamente e socialmente, assolutamente non solidale, dove la politica cavalca le divisioni e ogni rivendicazione egoistica, semplicemente per raggiungere il potere. Questa è l’eredità sabauda ottenuta peraltro attraverso il fascismo, da loro sponsorizzato per vent’anni.

Noi, esponenti della Costante Resistenziale di Sardegna, secondo una storica e obiettiva definizione del nostro più illustre archeologo e storico Giovanni Lilliu, che conosciamo l’importanza dei simboli, in questi anni dibattiamo sulla rimozione della statua del tiranno Carlo Feroce dalla piazza centrale di Cagliari e sulla pulizia della toponomastica viaria della Sardegna dalle imposizioni sabaude e fasciste, dibattito che si sta sviluppando anche nella penisola e nel mondo intero.

E’ bene conoscere la Storia, quella vera, ma celebrare tiranni e assassini dei popoli significa ridicolizzarla, è un insulto a chi ha subito i soprusi e al mondo intero.

63 bisuras

11 – Bisuras de aiàius (63 – 5s – XIII.XXIVa – 31.07 a) a 31.08.2020

ADOLESCENZA

Tema delicato questo. Finché si pensa a noi stessi bambini, lo sguardo può essere relativamente distaccato, non come si trattasse di un’altra persona, ma in parte; non è così per un adolescente, che è autore della costruzione del proprio io.

Devo però passare immediatamente alla prima persona singolare, in quanto è bene non dimenticare che il discorso è intimo, personale.

Trattare della propria adolescenza, quando per diversi aspetti ci si sente o si vorrebbe essere ancora adolescenti, non è molto condivisibile, tuttavia è un periodo della vita che ha una propria costante resistenziale, ergo, ogni tanto mi capita di incontrare persone, donne perfino, che sul tema la pensano come me.

Sarà perché la mia adolescenza – almeno ne ho questa percezione – è stata normale, non il guazzabuglio di problemi e sofferenze di cui parlano centinaia di pubblicazioni, anche se mi rendo conto che non è così per tutti e se il mio ricordo è tale, devo ammettere di essere stato relativamente fortunato; relativamente, perché certamente pur non essendo stato un periodo regale e di massima felicità, in qualche modo non è stato traumatico, posso ricordare episodi negativi o felici, come in ogni altro momento della vita.

Certo molto dipende da come una persona si approccia all’età, se si vive aspettando le difficoltà e addirittura coltivandole o se anche in mezzo ad esse si è talmente positivi dal volerle superare il giorno dopo.

Detto questo ricordo benissimo che in quegli anni mi ponevo il problema delle opportunità non attuabili per ragioni di età, ma è un discorso che si ripete costantemente in qualsiasi epoca della propria vita, per cui da adulti si può rimpiangere il periodo adolescenziale, specie quello più avanzato, quando si cominciava a combinare qualcosa con le ragazze, tanto lì si casca! Sarà per questo che da un po’, il periodo dell’adolescenza viene spinto sempre più in là, anche intorno ai venti anni? Vi è certamente in questo anche un aspetto psicologico, nel senso che più è avanti il tempo adolescenziale e più si spinge avanti anche quello giovanile, mandando l’età del senio alle calende greche…

Una delle maggiori seccature per me adolescente era quando mi sentivo trattato come un bambino… “Eh, il bambino…” e peggio, quando palesemente la mia presenza era considerata sconveniente da ragazze di appena tre anni in più, anch’esse adolescenti… sapete, le prendevano in giro perché frequentavano bambini. Che poi io ero cotto delle varie amiche di mia zia, assolutamente out age, minimo dieci anni più di me.

Non solo però, le mie prime arrischiate avances di neo adolescente furono per una ragazza di appena un anno in più e anche per qualche coetanea o quasi, e la mia smania di farmi avanti veniva puntualmente messa alla berlina dal loro modo di fare più smaliziato e ostentato sfacciatamente, a cui corrispondevano i miei rossori e la volontà di sparire…

Ma l’adolescenza è un’era geologica vera e propria, un semestre equivale a un decennio, per cui in poco tempo ci si emancipa e ci si vendica delle brutte figure esibendo le proprie conquiste, i propri amori finalmente realizzati.

Si tratta di un periodo meraviglioso anche per l’assoluta novità delle esperienze, la scuola superiore, i primi viaggi da soli in città lontane, non tutto rose e fiori quando comunque si deve sottostare alle regole ferree degli adulti, ma nel ricordo questi inconvenienti spariscono e resta solo il bello, il positivo; e l’incontro con la politica, le prime penfriend, la poesia, la filosofia, la scrittura, la lettura, la formazione delle proprie idee, la militanza, l’emancipazione, la scoperta del libertarismo, del valore della disobbedienza.

Trattiamo di un decennio in cui gli avvenimenti, la crescita individuale, sono talmente intensi e produttivi, che forse non basteranno altri cinquanta anni a realizzare qualcosa di simile, peraltro da adulto, i miei riferimenti partono tutti ancora da lì, la vita è un continuo sviluppo di quanto si è creato nell’adolescenza, almeno per me che allora mi sono creato una visione del mondo che è tuttora base delle mie idee e del mio percorso sociale e culturale.

adolescenza

5 – adolescenza (40 – V – 28.8 a) – a 21.02.2020

BISURAS DE JAIUS

Unu velu de fumu
ammantat is nuraxis,
pustis torrat sa vida;
gintòria chi si movit,
no connoxiu aiàius…
A bidda Barumeli
unu pesat su fusti,
un atru arraspundit:
nannais Frantziscu e
Luisu Maria Mebi, cad’
a is duxentus annus,
is aiàius prus crarus.
Prus pagu pretzisu biu
Badriliu cun Cicita,
Remundu Piga e Rita,
Amilia cun Nracisu,
Bissent’e Ciscu Luisu,
Remunda cun Bissenti…
Su sìndigu Antoni
impari a Giuanni Piras,
dubbat a s’enn’ ‘e gopai
Antoni Minai de Abas.
Bellanna Concu aperit
e si nci strésiat luegu.
Issus cumprotant contr’a
su re e is piemontesus.
Maria Theresa e Suia
in domu in pentzamentu
frastimant Carlu Feroxi;
su setixentus finit…

In questo secondo brano della serie iniziata con Innantis de Eva, è più evidente la dimensione onirica. Avi di n generazioni si muovono alla fine del settecento immersi tra storia e vita quotidiana.
(XIII.XXIVa-31.07 A)

a mio padre. 18.09.2009

Traduzione:
ATAVICHE VISIONI
Un velo fumoso/ avvolge i nuraghi,/ poi torna la vita;/ moltitudini si muovono,/ non riconosco avi…/
A villa Barumeli/ un uomo solleva il bastone*/ e un altro risponde:/ i nonni Francesco/ e Luigi Maria Melis, verso/ i duecento anni,/ sono gli avi più nitidi./
Meno chiaramente vedo/ Bardilio con Francesca,/ Raimondo Piga e Rita,/ Emilia con Narciso,/ Vincenza e Francesco Luigi,/ Raimonda con Vincenzo…/
Il sindaco Antonio/ insieme a Giovanni Piras,/ bussa alla porta del compare/ Antonio Minai di Ales./ Bellanna Concu apre/ e si ritira subito./ Loro complottano contro/ il re e i piemontesi./
Maria Teresa e Sofia/ in casa in ansia/ maledicono Carlo Feroce;**/il settecento finisce…/

*   antico modo di salutare da parte dei pastori
**  soprannome dato dai sardi a Carlo Felice quando era vicerè  

SU CONTU DE IAIA LIVETTINA

Sa di’ fia chistionendi
cun tzia Teresa Trudu,
mi iat nau: “O Livettina,
candu morru, bengiu e ti fatzu UH!”
“Su mabagràbiu no at a fai!”
di ia nau deu atzicada,
agoa mi ndi fia scarescia,
fiat ingiogatzada.
Una di’ me in s’antzianidadi
m’agatau me in su satu
po ci potai su prangiu
a Santinu, ca fiat in su castiu.
Lompia a su biviu ‘e Gonnanò
una boxi mi ‘ndi fait pesai paris,
poita fia pentzendi incantada:
“A su castiu ses andendi Livettina?”
“Sissi, tzia Teresa…” coitai a nai,
“…anc’adessi andendi totu cuncodrada?”
Tenendi pressi sighii fintzas a susu
e innì comenti chi mi ndi fessi scidada:
“Ti arrori! Ma tzia Teresa Trudu…
m’est atobiada ingui in giossu,
m’at saludau, apustis est sighida a andai …”
“Ma toca! T’as a sbagliai … est mota”.
E de sa di’ m’intrat su frius
a sa matessi ora chi d’ia bida;
e fiat propriu issa, no dda fia pentzendi,
giai mi dd iat nau ca m’iat a ai fattu “UH!”

61 su contu

Vi narro di Livettina Cabras, come riferitomi da mia nonna, sua figlia. La Sardegna conserva molte storie di contadini e pastori; si tratta di racconti di terra, pregni di magia, incantesimi, arcani, che abbiamo vissuto da bambini vicino ai nostri avi. Nelle case antiche sentivamo la presenza delle loro anime, capaci di difenderci, di vezzeggiarci, di volerci bene. Quando abbattiamo una casa antica, anche un solo muro, cacciamo loro, il nostro Sangue.
Ho tanto caro il ricordo di questa bisnonna, sebbene l’abbia conosciuta solo attraverso le parole della mia nonna paterna. Questo fatto fece epoca all’inizio del secolo scorso nella nostra zona.
(XII.XXI-14.03 A)

Traduzione:
LA STORIA DI NONNA LIVETTINA
Quel giorno stavo parlando/ con signora Teresa Trudu/ che mi disse “Livettina,/ quando morirò, verrò da te e ti farò spaventare”./ “Non vorrà fare questo!”/ le dissi impaurita,/ poi me ne dimenticai,/ stava scherzando./
Un giorno, ormai anziana,/ mi trovavo in campagna/ per portare il pranzo a Santino (il marito, ndt)/ che era nel suo posto di guardia./ Giunta al bivio di Gonnosnò/ una voce mi fece trasalire,/ in quanto ero soprappensiero:/ “Livettina stai andando alla vedetta?”/ “Si, signora Teresa…” mi affrettai a dire,/  “…chissà dove sta andando tutta vestita a festa!?”/ Avendo fretta continuai a salire/ e là come se mi fossi svegliata:/ “Oddio! Ma signora Teresa Trudu…/ l’ho incontrata laggiù,/ mi ha salutato poi ha proseguito per la sua strada…”/ “Ma và! Ti sbagli di certo, è morta!”/
Da quel giorno avverto brividi di freddo/ alla stessa ora che la vidi;/ era proprio lei, neanche la pensavo,/ me lo aveva detto che mi avrebbe spaventato./

glossarietto:
mabagrabiu = spettro
ingiogatzada = giocherellona
castiu = capanna di guardiano campestre
arrori = disgrazia

‘TENDI ITA T’ATZORODDU

‘Tendi ita t’atzoròddu,
ca stimu prus chi meda
aiàius e aiàias
de su tèmpus passau.
De íssus s’ istoria cìtiri
poita no funt nòbilis,
meris o erois,
ni sàbius chi ant istudiau.
Arrafieli, Giuannica, Antoi,
Maria Pepa, Mònica, Frantziscu:
nonnu Giusepi, po mei,
de Garibaldi ses prus bellu tui.
‘Ta prexèri fueddai cun nonna Amília
de aiàiu Santinu, Mundìcu e Giosuè,
Luisu, Rosa, Clara, Columba,
e de Amìlia Atzei bisàia ‘e babbu suu.
De Rita Urràci morta a trintun annu,
apùsti de dus fillus e sposa a bintitres,
candu po ci portai sa doda
fiant partìus seti carrus de Figu;
cun su pobìddu Afisiu
finìu in dd una funtana,
de chi iat pèrdiu is bènis
bintu ‘e su pentzamèntu.
Sighendi c’est Tomasu e Maddalena,
Juanni Antoi, Mariàngela e Perdu,
Pasqua, Bardìliu, Caterina
e iaiu Paulu sparèssiu in Argentina.
Grazietta, Bellanna e Battistina,
Sarbadori, Micheli e Nicolina,
Annica e Juanni su maìgu
e Arramùndu Mebi cunfrara.
Aìci finu.

60 'tendi

Altra lunga pausa prima di trovare nuovi versi, e in lingua sarda, un omaggio ai miei avi, scritto in fretta per un premio letterario, ma molto sentito.
Devo osservare che gli anni di silenzio sono stati sicuramente tra i più intensi e felici della mia vita, sono successe cose molto importanti. Era poesia la vita stessa e forse è vero che si scrive di più quando qualcosa non va, ma non voglio farne un teorema.
Vi lascio godere la musicalità della lingua sarda, se qui c’è, poi vi tradirò il brano, anche perché, d’ora in poi, il sardo la farà da padrone per un bel pezzo.
(XII.XXI-13.03 A)

Traduzione:
SENTI COSA TI ESCOGITO
Senti cosa ti escogito/ poiché amo tantissimo/ nonni, nonne/ e tutti i miei avi./
Riguardo loro la storia tace/ non essendo nobili,/ padroni o eroi,/ né sapienti che hanno studiato./
Raffaele, Giovanna, Antonio,/ Maria Giuseppa, Monica, Francesco:/ nonno Giuseppe, per me/ sei meglio tu di Garibaldi./
Che piacere conversare con nonna Emilia/ di nonno Santino, Raimondo e Giosuè,/ Luigi, Rosa, Clara e Colomba/ e di Emilia Atzei, bisnonna di suo padre./ Di Rita Urraci, morta a trentun anni,/ dopo due figli e sposatasi a ventitré,/ quando per trasportare la dote/ si erano mossi sette carri da Figu;/ con il marito Efisio/ finito in un pozzo/ dopo aver perso i beni/ vinto dall’angoscia./
Continuando ci sono Tommaso e Maddalena,/ Giovanni Antonio, Mariangela e Pietro,/ Pasqua, Bardilio, Caterina/ e nonno Paolo scomparso in Argentina./ Grazietta, Bella Anna e Battistina,/ Salvatore, Michele e Nicolina,/ Annetta, Giovanni il mago/ e Raimondo Melis, confratello./
Così finisco./

ADOLESCENZA

Sentirsi adulto, ma trattato da bambino.
Vivere dai nonni;
il piacere di pensare ragazze
e l’emozione di vederle;
fremere in presenza di una,
ma sognarne tante.
Riunione della famiglia
sotto il tetto natale.
Prime lettere d’amore
per la più ammirata:
incoscienza, impacci, rossori.
Smania di rivelare i sentimenti,
sequela di delusioni,
imparare ad indugiare.
Detestare i tipici complessi,
ritenersi disprezzati.
Primo viaggio in terraferma
at Roma caput mundi;
un incontro piacevole,
una passione da sviluppare,
un rapporto ancora impari.
Innamorarsi davvero un pomeriggio
solo vedendo un viso,
alla soglia degli studi superiori.
Non riuscire a studiare
nella sede della scuola,
memoria di un tempo desolato,
unico sollievo l’alienazione,
senza sostegno i pensieri.
Fuggir l’angoscia oristanese,
viaggiare dissipando energie:
arrendevolezza alla negatività,
tempo sprecato senza valore.
Attraversare ancora il mare
per un luogo avvertito opprimente,
gocce d’ingiustizia, poca libertà;
germinale di contestazione,
ancestrale coscienza rivoluzionaria.
Prurigini con compagna epistolare,
la mente altrove.
Esser ribelli a Karalis,
impavidi di mostrare il proprio io
nelle idee e nell’estetica.
Vita filosofica
in un paese chiuso in se;
contemplazione del futuro e del presente,
bisogno d’affetto.
Libertarismo emarginato,
non gradito, forse odiato,
perder fiducia, guadagnar diffidenza;
in crisi divenir se stessi
con la poesia per amica;
grande avvenimento
parlare con una donna.
Nel camping vacanza
vissuto come prigione,
l’analisi anti-ipnopedica
ancora poco chiara,
ma cresceva la ricerca.
Lentissimi progressi
dei contatti con l’altro sesso,
primi vincoli veri.
Prime fusioni dell’adolescenza,
superamento di molti timori,
sviluppo di desideri spirituali.
Ricostruzione dell’io.

adolescenza

Come per la mania di voler scrivere versi per ogni pianeta e altri elementi della galassia, la stessa cosa valse per i periodi della vita: nascita, infanzia, fanciullezza e così via. Insomma appunti a future “Memorie”.
L’età è sempre diciotto anni: non mi sentivo più adolescente… forse non lo ero del tutto o non lo sarei più stato di lì a poco. Ho notato che oggi l’età adolescenziale viene spesso spostata in avanti a seconda delle opportunità, talvolta anche oltre i venti anni: si parla di gente che vota, ha la patente ed è già fuori di  casa!!! Mah!
Lo stile è simile agli ultimi due brani della serie, già visti. Anche in questo caso sono riportati i flashback del momento, gli avvenimenti più vivi, ritenuti più importanti.
Anche qui c’è stata una rielaborazione che non ha modificato la sostanza, ma lo stile, l’esposizione. Vale il discorso fatto per “Fanciullezza”, qui le modifiche sono ancora minori e senza storia.
(V – 28.8 A)

Music:
LA SOL
MI RE
MI FA SOL
LA SOL LA
FA# MI FA
SOL SI
RE SI
(V – 5.7 A)

http://poeesie.myblog.it/media/00/00/514949840.mp3