UBIQUITÀ

Qualche tempo dopo aver riflettuto sulla “condizione” di sosia, mi è capitato di farlo sul concetto di ubiquità; sono entrambi aspetti piuttosto astratti, soprattutto l’ultimo, e molto soggettivi, eppure non sarò stato certo il solo a ragionarci sopra in maniera surreale.

Probabilmente conobbi questo termine ancora bambino, leggendo i “giornaletti” in voga allora, ma non andai mai oltre la ricerca del significato; quando lo feci, fu per una di quelle riflessioni interiori adolescenziali, per il piacere del sogno a occhi aperti, il fantasticare su situazioni idealmente desiderabili, pretendere l’impossibile oltre la realtà.

Pensandoci bene, questo lavorio della mente, senza necessità di droghe, portava un’alienazione salutare o almeno senza complicazioni nocive. La mia riflessione si faceva concreta: se esistesse l’ubiquità avremmo sì la possibilità di star bene, mentre si può star male altrove, ma potremmo anche star male due o più volte, giacché la circostanza della doppia felicità sarebbe inutile, basta essere felici una volta. Filosofia di second’ordine? Sicuramente, anche di terzo e quarto, ma qui l’utilità è tenere allenata la mente e farlo può essere una forma d’arte.

Queste riflessioni, seppure rimasugli adolescenziali, occuparono uno spazio temporale in cui avevo già fatto scelte precise in società, ne sono spia le conclusioni realistiche. Da qualche anno conoscevo il cinema surrealista o neo-surrealista e ne ero entusiasta: Buñuel, Jodorowsky, Arrabal, Makavejev, Ferreri, il primo Brass e tantissimi altri. Diversi, come Lynch e Kieslowski, li ho conosciuti dopo, ma entrarono di forza nella mia riflessione; per certi versi il primo con Mulholland Drive, ma in modo esemplare il secondo con La doppia vita di Veronica.

Questo film unisce, nel suo intento surreale, la qualità di sosia delle due protagoniste e il concetto di ubiquità. Weronika, polacca e Véronique, francese, oltre allo stesso nome, allo stesso viso, allo stesso corpo (interpretate entrambe da Irene Jacob), alla stessa passione per la musica, percepiscono la loro vita reciproca, si incontrano a Cracovia pur senza parlarsi; quando Weronika muore durante un concerto, Véronique accusa problemi cardiaci, abbandona il canto, si cura e si salva, ma Weronika resta presente nella sua vita e la riscopre in una foto scattata durante il suo viaggio in Polonia che le ritrae entrambe. Il tema del sosia e quello dell’ubiquità stimolano dunque l’arte. Nel caso di Veronica un’arte struggente che crea fortissime emozioni sullo schermo e sullo spettatore, al di là della finzione.

Qualcosa del genere accade anche nel film di Lynch, dove la protagonista Betty Elms vive due vite parallele, una di aspirante attrice in sogno e una, quale è in realtà, Diane Selwyn. Immagino esistano tanti altri esempi del genere essendo l’argomento piuttosto intrigante per costruirvi delle storie.

Il tema è naturalmente utilizzato anche in letteratura. Il curioso è che se si fa arte vera, la trattazione non è mai banale, nel senso che si presta a una marea di tematiche e situazioni. Cito un esempio, visto che sto per terminare un libro che tratta discretamente l’argomento. Non avendolo ancora concluso non c’è il rischio di spoilerare le conclusioni.

Si tratta del romanzo storico I codici del labirinto di Kate Mosse, ideale per un primo approccio alla storia dei càtari. Anche in questo caso vi sono due protagoniste, ma una vive nel medioevo e l’altra ai nostri giorni, Alaïs e Alice, una della Linguadoca e l’altra inglese, ma evidentemente con un ramo francese. Alice scoprendo gradualmente la storia dell’antica antenata, recandosi nei luoghi in cui ha vissuto, ha la sensazione di esservi già stata, brutalmente, di essere lei stessa Alaïs.

Così, al di là della consapevolezza dell’impossibilità di poter essere ubiqui, l’argomento attira la fantasia dei creativi da secoli, basta ricordare Menaechmi di Plauto, sebbene qui siamo alla commedia e alla vicenda di due gemelli identici. Potremmo dire, anche se non siamo gemelli, che in qualche modo il nostro gemello ci manca e con lui la possibilità di essere ubiqui e sosia allo stesso tempo, la sosiubiquità.

ubiquità

23 Ubiquità (55 – IX – 31.12 a) a 1.9.2021

IL SIGILLO DELLO SPIRITO

Appena dentro, istantaneamente,
ho visto l’opposto del surreale,
del magico, onirico o fatale:
un bagliore d’empatia ancestrale.
Pronto a confermazioni di massa
solamente, ma lì tutto percepii;
emanavan dall’aere le sembianze,
i modi, le andature, i tagli,
le maschere che conobbi oltr’Arci
ai tempi della scuola elementare.
Hanno portato con se la loro aria,
l’odore dei campi, delle fontane,
del paesaggio vissuto per le strade
e fattezze, zigomi, dentature,
visibili nell’alto Campidano,
tipiche a Terralba e Marrubiu,
come a Pabillonis e Arcidano,
eppur così precise solo a Uras.
Anche nei bimbi vedo i loro padri,
testimoni di varie stirpi sarde.
La cattedrale si traspone e scorgo,
nella volta, l’affresco vago e scarno
del soldato con l’elmo acuminato
in iconografia da catechismo,
teso ad infierire con la lancia
su santa Maria Maddalena a terra.
Intanto si conferma quella gente,
incede con svariate sfumature,
immortala la rappresentazione.
Il contegno che osservai allora:
la religiosità dal tono rosso
di sapore naif di fine secolo.

il sigillo.jpg

Tertio millennio adveniente il cattolicesimo iniziava la preparazione all’evento e al giubileo. Tre anni di preparazione che animarono tutta la chiesa locale, nel senso più ampio del termine. Fu così che quattordici anni fa mi trovai nel mezzo di una manifestazione di religiosità popolare dal vago sapore buñueliano o anche pasoliniano, che sarebbe banalizzante ridescrivere.
Una comunità storicamente rossa, a me nota, portava i suoi adulti al sacramento pentecostale nel duomo diocesano, generando un coacervo di sensazioni che misi immediatamente in versi.
(XVII.XXIX-28.6 A)

UBIQUITA’

Sarebbe utile talvolta
avere il dono dell’ubiquità.
Poter vivere una situazione serena,
intanto che se ne vive una brutta
o solo si è colmi di noia.
Ho il dono dell’ubiquità,
dicono che sia solo un sogno;
mi si fa cadere nella realtà,
mentre cerco l’alienazione.
Ubiquità… irrealtà, utopia:
rischio di star male due volte,
a che serve una doppia felicità!?
Tendenza irraggiungibile,
speranza infinita:
realtà della mente
ubiquità spirituale.

 ubiquità.jpg

Oltre due anni separano la stesura di questo brano da “Sosia”, eppure in qualche modo li considero “gemelli” e non solo a me è capitato di confonderli.
Gemelli dal destino diverso, se non restano uniti… come se ciascuno di noi fosse stato privato del suo, della sua protezione, del suo conforto persistente.
A rigore un sosia è un altro, qualcosa di concreto e distaccato, l’ubiquo è al massimo una condizione mentale, una aspirazione astratta, che riguarda più direttamente se stessi. La familiarità anche stretta tra queste due qualità è stupendamente descritta nel film “La doppia vita di Veronica” di Krzysztof Kieslowski, interpretato magistralmente da Irène Jacob.
Non so se avete mai provato la splendida sensazione che dà la visione di un film, l’ascolto di una canzone, la lettura di un libro o anche solo un dialogo, che vi fanno scoprire totale identità di vedute… a me è capitato tante volte, è un materializzarsi di sensazioni sosiubique. E’ accaduto alla grande con questo film e un po’ con tutta l’opera di Kieslowski, un vero sosia di idee, come altri scrittori, musicisti, artisti…
Il brano, scritto a 23 anni, testimonia sicuramente la mia costante riflessione su tematiche simili, che trovano scarsi interlocutori e il discorso sarebbe lungo e complesso.
Era peraltro un 31 Dicembre, uno di quei capodanni deludenti, che mi richiama subito alla mente l’articolo di Gramsci sull’ “Avanti” del 1 gennaio 1916, “Odio i capodanni”. Gli omuncoli del capitalismo che infestano i governi e i ministeri del mondo, sempre che lo capiscano, storcerebbero il muso, incasinati come sono nelle gabbie in cui si sono rinchiusi da soli e vorrebbero costringerci, ma noi che abbiamo il dono della speranza, esigiamo che ogni giorno sia capodanno e ogni tanto, anche in questo mondo che si autodistrugge, ne passeremmo di sicuro qualcuno buono.
(IX – 31.12 A)