INFERNO (alienazione transitoria)

Titoli che sanno di comedia, il racconto continua. Inferno e paradiso insieme con quel saluto struggente e intenso.

A sedici anni si drammatizza, visto da occhi lontani magari, ma quella fu una tragedia vera e propria, l’avvio verso una caduta prevedibile, ma che dei giorni bellissimi, concessi e rubati, imponevano di accettare, in silenzio.

Ciò che avviene spesso nella produzione letteraria antica, ma anche moderna e contemporanea, accade anche a chi predilige in essa la positività, rarissimo trovare un capolavoro – percepito tale universalmente – che abbia la felicità come elemento prevalente. Si preferisce apprezzare il dramma, le vicende che non si risolvono con il lieto fine più o meno sdolcinato, così anche nella comedia dantesca a prevalere è l’Inferno, ed è così anche nella mia modesta esperienza, per apprezzamenti, conoscenza, pubblicazioni antologiche, Inferno (Alienazione transitoria), ha da sempre raccolto consensi, con le dovute proporzioni, s’intende…

Questo “inferno” racconta del congedo – dopo amori platonici e unilaterali – del primo amore vero, concreto, tangibile; della scoperta di un nuovo mondo dove ci si butta dentro con tutto se stessi… Eppure il momento del saluto, del distacco, sebbene pieno di speranze, è particolarmente doloroso. E i ricordi del periodo immediatamente successivo non possono essere piacevoli.
Ginevra e Graham si erano già salutati, il canto del cigno era stata la giornata in montagna, nel bosco, una fuga dopo l’altra e quel “paradiso” terminava con una mano lasciata indietro, verso di lei, e che lei trovò per un contatto infinito, finché l’ultimo dito non si staccò.

Era finita, in quel gesto che osava, in quel gesto leggibilissimo, in movimento, in passi lenti ma abbandonanti, quasi di sbieco, nel buio reale di un cortile che li aveva visti insieme e da soli per tanti anni; buio reale, ma anche interiore, che cresceva man pano che i passi si allontanavano.

Una notte diversa dalle altre, a tratti insonne a rimuginare cose non fatte o a recriminare per situazioni ideali mancate, o con incubi trapelanti da colori chiaroscuri con sibili amplificati dallo stato d’animo evocante fantasmi evanescenti, roba che un horror ti fa un baffo.

E’ l’inferno di non so quale autore drama/surreale, senza grazia, nelle peggiori situazioni, in continua fuga, in continua caduta.

Egli sente i suoi lamenti spettrali, roghi di umani, in un vagheggiare un piacere sfumato, delle immagini fuori dal contesto di lei che partorisce in un manto di rose.

La scossa nel sogno lo riporta al contesto tremendo, al sogno originario, infuocato, diabolico, a un’invasione di serpenti, eppure è dal peggio che inizia la lotta, la prova estrema che restituisce la forza per combattere, per redimersi, per trovare nuove speranze nella vita quotidiana.

Lei sarà sempre adorata al di là di ogni aspetto e situazione, in un contesto di positività, sarà comunque voluta, desiderata, cercata nelle notti che si alterneranno, le fantasie si moltiplicheranno in un ambito futuro ancora paradisiaco, finché dal dolore, da quel senso di malessere latente, emergerà un’alba di sole assolutamente gioiosa, dai colori chiari.

La sintesi di una storia si presta anche a considerazioni sulla scrittura e in particolare sulla suddivisione in parti, specie se essa avviene in tempi e contesti diversi, che solo parzialmente è questo caso; non ci sarebbe neppure da ribadirlo, se non si trattasse di ricordarlo a se stessi come complemento della memoria degli eventi umani, peraltro dissimili da tanti altri, si fa sociologia, statistica.

Più pertinente invece è l’aspetto stilistico che l’approccio descrittivo, il tema, condiziona fortemente. Pertanto vi sarà differenza tra un approccio a tematiche mielose, euforiche, difficili da rendere senza scadere in un minimo di banalità e aspetti crudo/drammatici che descritti lontano dai fatti cui si ispirano operano il rischio opposto, lo stare tra gotico e barocco, quand’anche rococò.

Avvicinare la scrittura al genere artistico materiale può non essere il massimo, ma rende abbastanza l’idea, sempre a seconda dell’idioletto in cui ci si è formati ben inteso, perciò in questo stravolgimento dell’ordine logistico da Inferno-Purgarorio-Paradiso a Paradiso-Inferno-Purgatorio, rispondente a esigenza sentimentali e non politico-religiose, soprattutto in età ancora adolescenziale, piuttosto che “nel mezzo del cammin”, il linguaggio, lo stile, l’espressione, chiamano se stessi, e il risultato è l’opera per quanto kitsch, comunque bella (solo per spirito di citazione).

alienazione transitoria

Inferno (Alienazione transitoria) (20 – III – 23.10 s) a 30/7/2023

NEI NOSTRI VERSI NON CI SON LE MADRI

Quando anni fa mi proposero di scrivere versi sul tema “La madre”, mi interrogai sul perché non ci avessi mai pensato e in realtà non avrei saputo da dove cominciare, né peraltro avevo presenti esempi di qualcuno che si fosse cimentato su questo tema.

“La madre” non è qualcosa di indefinito, non è la madre di chicchessia, è precisamente tua madre; non è un tema che tu, o almeno io, potessi pensare di rendere pubblico a chiunque, per pudore, per rispetto o per qualcosa di interiore che comunque ti impedisce di trattare un argomento così personale.

Ero disorientato, ma considerai l’argomento da un mio punto di vista possibile, intimo, ma anche sociale, oltreché letterario. Portai a termine il lavoro e lo definii, con una sorta di neologismo: parametodologico, ovvero adottai una sorta di metodologia creata ad hoc, un po’ per togliermi dall’impiccio, una sorta di dire e non dire, di mescolare gli elementi citati.

Non ho mai fatto una ricerca, né al momento intendo farla, su quanti, illustri o dilettanti, si siano cimentati su tale argomento, tuttavia (a parte un romanzo della Deledda letto tempo fa) ho la sensazione che non ci sia una quantità enorme di materiale, così specifico intendo.

La mia riflessione produsse delle problematiche, non drammatiche per carità, ma una sorta di senso di colpa che collettivizzai: le madri erano dimenticate in qualche modo nei versi, negli scritti, raramente erano protagoniste e più spesso semplici comparse, l’urlo di protesa sorse spontaneo: nei nostri versi non ci sono le madri!

A pensarci bene è sconvolgente che chi ci ha dato la vita sia messa in secondo piano rispetto a tanta altra gente, ad altri affetti, nelle opere letterarie s’intende, non certo nella vita, ove l’affetto per una mamma è sicuramente universale.

Non ho fatto indagini, ma ho richiamato alla memoria l’infanzia in cui la madre è la persona più presente, ho frugato tra i versi delle maggiori opere letterarie classiche – e più modestamente anche tra i miei – per vedere come venissero trattate, nonché tra le righe della cronaca, spesso spietata, non contestualizzata e scandalistica.

Ai ricordi di mia madre si legano strettamente quelli di mio padre – la fortuna di avere avuto dei genitori presenti – ma le mamme non possono solo essere comparse della nostra infanzia e adesso è molto più difficile al contrario di quanto possa sembrare: fidati oggi a lasciare un bambino affacciato alla finestra che ti aspetta mentre fai la spesa! Questo significava una società completamente diversa, a tratti rurale, ma anche senza malessere, dove il bambino era protetto da una comunità solidale, dove tutti conoscevano tutti, dove si vedevano più bambini a spasso tenuti per mano dalla madre.

Nel caso di questo testo, contrariamente a quanto mi ero ripromesso, sento di dover essere didascalico, ma un po’ per ricordare a me stesso la genesi del brano.

La citazione della prima stanza è tratta dall’Odissea (libro IX), è uguale alla traduzione di Ippolito Pindemonte. Naturalmente è un omaggio, ma è funzionale al mio testo. In Omero il contesto è differente. Ulisse sta riferendo ad Alcinoo, padre di Nausicaa e re dei Feaci, ospitali abitanti dell’isola di Scheria (Corfù), delle sue vicissitudini dopo la guerra contro Troia. Spiega che anche per un navigatore come lui dopo un po’ ciò che più si desidera è la propria casa, la propria terra, che è come la madre per un bimbo che brama esser preso per mano.

Dall’essere nutrice e maggiore oggetto d’affetto per un bimbo, per una madre l’accusa e la calunnia sono sempre dietro l’angolo, come quella di non nutrire i figli. Pertanto la pur meticolosa madre di Achille – la cui figura è massimamente descritta nell’Iliade -, Teti, che rende invulnerabile il figlio immergendolo nello Stige (Achilleide di Stazio), senza bagnarne il tallone, patirà e sarà derisa per questo, benché per tutto il poema omerico si dedichi alla salvezza del figlio.

Le madri sono citate spesso e più volentieri le rare volte che sbagliano o quando fanno gesti talmente eroici che non se ne può tacere. Eppure degli sbagli sono a volte colpevoli gli stessi figli dei quali si ha pietà più che di esse.

La citazione questa volta è tratta da Metamorfosi di Ovidio, il riferimento è al XIII libro, dove si racconta il mito delle sorelle Metioche e Menippe, figlie di Orione, che si sacrificano per salvare Tebe dalla carestia e nel loro rogo funebre procreano la loro discendenza generando i Coroni. Storia simile ad altre e in particolare a quella di Coronide e Ascelpio (libro II).

Le madri, ieri come oggi, vengono immolate da un mondo assassino, come per il dramma dell’aborto, su cui per anni si sono sparsi inchiostri, tanto a morire sono loro, come accadde a Ilia (Rhea Silvia) uccisa per aver generato dei figli (Romolo e Remo). Ilia è citata nel libro VI dell’Eneide, ma la sua storia è raccontata nel dettaglio nei libri Ab Urbe condita I di Tito Livio e in Annales di Ennio e Fabio Pittore.

L’uso anche dei miei versi certo è una vanità, che tuttavia si consuma tra me e me stesso, se non altro dimostra che un pensiero alle madri talvolta lo avevo fatto. Nell’ordine i versi sono tratti da Infanzia (“…affacciato alla finestra attendo mia madre), Mihi non licet iudicare (“Si diceva che la madre/ non gli desse da mangiare”), Il manifesto (“Kyrie eleison”), Politique d’abort (“L’aborto è un grave dramma umano/ subito, suo malgrado, dalla madre”).

Tutti i brani sono pubblicati nella mia antologia “sovVERSIvi” (faccio un po’ di pubblicità, ma solo per ricordare che c’è un’edizione economica ordinabile su ilmiolibro.it – codice 1200348 – euro 13,50. I brani ovviamente sono tutti presenti anche su questo blog).

Concludendo, la struttura del brano è composta dal verso “madre” che si ripete in forma anaforica nelle quartine, da una sorta di introduzione ai versi successivi, che sono un mio verso e uno di un’opera classica.

p.s.: L’uso di “parersi”, al verso 7, è una licenza poeetica per “parrebbe”, “sembrerebbe”, per evidenti ragioni di rima. Tuttavia questa forma pronominale è attestata anche in Dante (Inferno, canto XXIX, verso 42 “potien parersi alla veduta nostra”), sebbene con il significato compatibile di “apparire”.

nei nostri versi..

24 Nei nostri versi non ci son le madri (98 – XXIII.XXXIX – 23.5 a) a 20/29.9.2021

NEI NOSTRI VERSI NON CI SON LE MADRI

Nei nostri versi non ci son le madri,
solo comparse che l’infanzia segna:
affacciato a una finestra a quadri,
ciascun la destra della madre agogna.

Non ci son le madri nei nostri versi,
solo calunnie o passar da imbecille:
al bimbo non desse mangiar, parersi,
e in Stige, Teti, vulno lasciò Achille.

Nei nostri versi le madri non ci son,
solo richiami a crudeli perigli:
per prole imprudente chirieleison;
madri strappan dal loro rogo i figli.

Non ci son le madri nei versi nostri,
immolate nel mondo assassino:
sul dramma dell’aborto sparsi inchiostri;
di madre Ilia infelice destino.
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Alcuni anni fa una blogger, poeta, piccola editora, mi propose di cimentarmi sul tema “la madre”, in quanto avrebbe pubblicato un’antologia di versi in merito.
Non ho mai saputo se l’antologia sia stata pubblicata o meno, tuttavia questa richiesta mi mise un po’ in difficoltà, anzi inizialmente mi lasciò perplesso e conseguentemente anchè un po’ colpevole. Non avevo mai pensato a questo tema nel comporre versi e mi sembrava che non fosse neppure tanto considerato in generale.
Il brano nacque proprio da questo piccolo disorientamento. Accettai la sfida, ma non il rischio di cadere nella retorica, così scrissi dei versi, oserei dire, parametodologici, quattro strofe di endecasillabi a rima alternata, dove ogni verso della quartina ha una funzione tematica e/o tecnica, che lascio a voi scoprire, dico solo che un verso per stanza cita l’Odissea, l’Iliade, le Metamorfosi di Ovidio e l’Eneide.
Riguardo all’uso di “parersi”, al verso 7, è una licenza poeetica per “parrebbe”, “sembrerebbe”, per evidenti ragioni di rima. Tuttavia questa forma pronominale è attestata anche in Dante (Inferno, canto XXIX, verso 42 “potien parersi alla veduta nostra”), sebbene con il significato compatibile di “apparire”.
(XXIII.XXXIX – 23.5 A)

ALIENAZIONE TRANSITORIA (inferno)

Finita!
nei miei passi abbandonanti,
nel buio
crescente dentro me.
Che notte singolare!
dalle pareti rosa
sibili assordanti,
ombre di fantasmi:
mi tramuto in dannato dell’inferno;
sono un disgraziato
arranco nel peccato,
volendo disertare
scappo, cado.
Sento il tuo spettro invocante,
vedo un rogo naturale umano;
vagheggio nel torpore
conferendo diletto ai sensi:
in un manto di rose patisci per mio figlio.
Scosso
mi desto
scorgo il fuoco:
uno spirito del male mi sperde tra le serpi
ma la furia non può annullare il fervore:
questo è un Inferno da remissione
attendo la mia scarcerazione
Intanto ti venero,
ti bramo
sul suolo io ardo
nel letto ti cerco;
inferno demonio
da lei voglio prole!
inferno ti scaccio,
l’aurora emergerà.

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Forse è, da sempre, il brano più apprezzato della mia produzione, probabilmente anche quello più conosciuto. Vanta pubblicazioni plurime in antologie.
Lo scrissi al compimento del diciassettesimo anno di età, come secondo atto di una trilogia, che seguì la stesura in due parti di Paradiso, e precedette quella di Purgatorio; infatti il suo titolo originale era Inferno.
Ai tempi della stesura, con amici, fu anche messo in musica (che ricordo, ma non trovo nota degli accordi, peraltro penso fossero due), inciso su nastro e spacciato goliardicamente per il pezzo di un noto gruppo rock.
Ma la sua storia è meno allegra.
L’estate precedente, dopo tanti amori platonici e unilaterali, ebbi il primo amore vero, concreto, tangibile; fu come la scoperta di un nuovo mondo e mi ci buttai dentro con tutto me stesso… Poi giunse il momento dei saluti e il distacco, seppure pieno di speranze, fu particolarmente doloroso. I versi si soffermano appunto su questi momenti. Il diario di allora commenta: “Brutto ricordo dei giorni successivi alla partenza di …”
Non ha subito alcuna variazione di sorta rispetto alla stesura originale.
(III – 23.10 Sestu)