INNANTIS DE EVA

“Cantus in limba sarda” è prevalentemente una storia ancestrale dedicata agli avi, ma anche la raccolta di scritti, datati o meno, in lingua sarda; la necessità di scrivere in lingua madre, sebbene (ed è motivo di critica) la nostra produzione letteraria sia soprattutto in lingua straniera, ovvero questa seconda lingua, benché acquisita insieme alla “limba mama”. Sarebbe il caso di precisare che non è una scelta dei sardi il fatto che la lingua madre non sia insegnata nelle scuole, diffusa via stampa o televisione, al contrario dell’italiano, pertanto è evidente l’handicap soprattutto nello scriverla. Si sono fatti passi avanti con la legge sulle minoranze linguistiche, ma a questi sono seguiti intralci e ormai ci restano solo residui…

Peraltro la politica italiota nei confronti delle minoranze, per alcuni versi, è nota e resta figlia della politica opportunista sabauda (della quale lo staterello italico non si è mai liberato): si concedono diritti solo quando i fruitori possono ricattarti, altrimenti no… Sintomatico il caso di sloveni e croati, cui, invasi, non solo venne vietato di parlare la loro lingua, ma vengono ancora oggi criminalizzati per la loro resistenza. Ovvero, gli “italici” possono compiere tutti i misfatti possibili restando impuniti, mentre i resistenti, in quanto tali, saranno banditi in eterno.

Discorso lungo e complesso quello dei diritti negati – insieme a storia e politiche – a un popolo oppresso, cui vengono disdette anche civiltà, strutture, che è sotto continua occupazione militare e sfruttamento del territorio anche turistico e ambientale, per questioni che non porteranno benefici ai sardi, ma caso mai a quelli altrove (il riferimento è attuale, l’invasione selvaggia di pale eoliche e fotovoltaico a terra, e si reagisce legalmente…). Il paradosso, in questa situazione coloniale, è che siamo più capaci a parlare la loro lingua che la nostra, non siamo sloveni, croati o sudtirolesi… La scarna costante resistenziale che è in noi, recrimina, ma fa anche buon viso a cattivo gioco. Contrariamente a sos meres itàlicos, sappiamo che è buona cosa imparare più lingue possibili, mentre loro si sono accaniti, inutilmente peraltro, contro i popoli che formano il loro stato (mai nazione), per fargli dimenticare lingue o anche solo dialetti.

Il danno è stato grave. Oltre ad avere screditato culturalmente lingue e idiomi, è stata negata una crescita plurilingue ai giovani, in particolar modo nella scrittura, giacché, nonostante le proibizioni, almeno in famiglia e tra amici si è continuato a parlare sardo. I momenti più critici, oltre al fascismo, sono stati gli anni sessanta, con i rigurgiti governativi di nazionalismo, che come risultato hanno portato a parlar male sia le proprie lingue che il dialetto fiorentino.

A fine anni sessanta nuove consapevolezze (dal basso) hanno portato una lenta inversione di tendenza, fino alla legge 482/99… che da qualche anno governi reazionari stanno cercando di vanificare, anche con l’avvallo di giunte regionali incapaci, oltretutto sedicenti “autonomiste”.

Chiarito sommariamente questo antefatto non indifferente, nella comunicazione – a seconda di a chi si scrive e chi si vuole raggiungere – è evidente la necessità di usare l’italiano o per orizzonti più vasti, l’inglese e talvolta lo spagnolo; il mondo non è statico come i nostri post-sabaudi. Ciò non esclude l’uso del sardo, che può anche connettersi allo studio del latino, dello spagnolo o del catalano. A qualche italianismo entrato nel sardo, per fortuna cominciano a notarsi sardismi che penetrano nell’italiano, secondo un normale do ut des tra lingue, è la normalità che i linguisti, i glottologi, conoscono da sempre. Per l’uso delle lingue minoritarie, non dimentichiamo che esistono le traduzioni, ma è anche importante riacquisirne il corretto uso orale e scritto.

L’insegnamento del sardo, in quanto lingua neolatina più conservativa, è presente in diverse università del mondo, oltre che in Sardegna, manco a dirlo, difetta in Italia.

Vi sono alcune consapevolezze: a) il diritto dei sardi: tutelare e conservare la loro lingua come qualsiasi minoranza linguistica esistente; vedere la propria lingua insegnata nelle scuole, per colmare il divario tra orale e scritto e tutta una serie di ulteriori problematiche; b) comprendere che, proprio perché la nostra è una lingua minoritaria, dobbiamo essere aperti a usare altri idiomi, anche per diffondere con più efficacia i nostri diritti e la nostra cultura contro l’ignoranza o i luoghi comuni, interni ed esterni, con cui abbiamo a che fare da secoli. Chi contrasta l’uso del sardo, parla malamente anche le altre lingue, chi tutela il sardo padroneggia le lingue straniere che ha studiato, grazie a una superiore apertura mentale.

Nel nostro caso parlare una lingua può essere più semplice che scriverla, ma può valere anche l’opposto (ad esempio, scrivere meglio l’inglese rispetto a come lo si parla). Affrontare le difficoltà è tuttavia piacevole, si impara, serve del tempo, ma poi sarà una soddisfazione.

Qui si comunica con un piccolo pubblico, ma internazionale, in una lingua che può essere tradotta; per il sardo si è fatto qualche piccolo passo in questo senso, abbiamo ancora un vocabolario e una grammatica poco conosciuti, anche nella rete internet, ma si sta lavorando.

Veniamo al nostro testo, “Innantis de Eva” (in antis, prima, before). Una breve ode sociologica, di costume, in versi liberi, ma questo ciascuno lo vede, come vede i riti, i topoi, la celebrazione, in qualche modo, del mondo femminile.

Il prima è chiarito dal cenno al ricordo. Non si tratta di cosa si immagina prima che ci fosse Eva, ma cosa ricorda la mente prima di Eva, e il sardo ricorda la Dea Madre; diversa iconografia, ma neppure troppo, la Dea Mater è più identitaria nel nostro idioma, ma entrambe hanno i seni nudi senza che alcuno si scandalizzi. I seni ci portano a un altro simbolo identitario, il nostro territorio centro occidentale dell’isola, la regione denominata Marmilla (mamilla, mammella), dove le colline hanno la forma dei seni di donna, la più esemplare quella che ospita il castello di Las Plassas.

Eva dunque resta un simbolo straniero, suo malgrado, per quanto la nostra storia siano fiumi di latte di cui è impedito parlare, dal tempo di Elena di Sparta (periodo ellenico) fino a Eleonora D’Arborea (periodo autoctono), storia di occupazioni straniere cui siamo stati succubi e che vengono nascosti il più possibile e mai nessuno lo ha fatto come gli attuali occupanti eredi dei sabaudi. Sono celati soprattutto i nostri momenti di luce, tempi in cui popolazioni approdate in Sardegna non si sono poste come occupanti, ma hanno cercato di collaborare con i locali, dai fenici ai cartaginesi, forse anche i bizantini, che hanno favorito i regni giudicali indigeni.

La nostra ode si barcamena tra giustizia linguistica e sociologia del costume, evoluzioni e retrocessioni della storia; a volte anche il progresso ha le sue involuzioni, come il costume. Eva e la dea Madre si mostrano nude e non creano scandalo, Elena è disinibita più di Eleonora vissuta oltre due millenni e mezzo dopo. I “tabù” vanno e vengono nel tempo, anche tra regine. Il seno, in un certo senso, può assurgere a pietra di paragone: dalla normalità al mostrarlo di nascosto, celato da velluti o mostrato sulle spiagge deserte o meno e acquista un ché di mistero che si trasforma con il ruolo conquistato o imposto alla donna: fossero velate o eleganti, gentili o arrabbiate, ma sempre sotto sotto, fiere di se stesse. Nebbia, più che incenso, che addolcisce, attenua, liscia e abbellisce.

La storia è sempre la stessa, è almeno duplice, in base a chi la racconta: i seni danzano sulla sabbia del mare o in montagna, nei giornali o al cinema, in un surplus di carne che non lascia spazio al mistero, alla poesia.

Non ligi a compromessi seguiamo la voce dell’esperienza: ode allora a quelli lisci di Neviana, i perfetti di Luisa, turgidi di Olèria, prosperosi di Maria, vellutati di Rosalba, i più belli di Greca. Suggestioni a getto, sfide da indirizzare, da correggere se è il caso. Il flusso, la spontaneità, circoscrivono comunque un ambito di ispirazione, come in un sogno, il colore del grano, di un’infanzia lontana il cui ricordo si vela di mistero, di incantesimo, di magia.

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59 Innantis de Eva (62 – 4s – XIII.XXIV – 30.07 a)  p (ar) 5.08.2024