FASCISTE!

Quella mattina arrivò presto, se ne stette seduto sul muretto privo di alcuno stile che fungeva da passerella di accesso alla facoltà, ma piuttosto defilato, vicino alla libreria, postazione scelta non a caso: da lì poteva osservare la fiumana di colleghe che, scese dall’autobus, si dirigevano verso l’ateneo, anch’esso senza stile, o almeno privo di uno stile artistico codificato, un palazzone parallelepipedale con qualche rifinitura agli ingressi, tuttavia piuttosto funzionale all’interno, costruito a cavallo tra anni Sessanta e Settanta del secolo scorso a “Sa duchessa”. Antonio lo conosceva bene, ormai nel mezzo degli studi, ma aveva iniziato a frequentarlo pochi mesi dopo l’inaugurazione: da lì partivano e tornavano i cortei studenteschi, nell’aula magna si svolgevano le assemblee movimentiste, i vari collettivi, le attività culturali che coinvolgevano anche gli studenti medi. Fin da subito ne aveva conquistato la quasi totale agibilità politica il “Movimento studentesco” di Mario Capanna, il gruppo della nuova sinistra più organizzato a Cagliari, o almeno in facoltà di Lettere.

Benché edifici, muretti e immobili vari fossero come allora, i tempi erano cambiati, o almeno, i motivi per cui Antonio se ne stava là seduto non erano strettamente politici.

L’attesa di pochi minuti appariva lunga ore, finché, prima che il suo volto, gli giunse l’eco stonata della sua voce mattutina, maldestra, goliardica e prepotente. Un fiume in piena inarrestabile che travolgeva completamente i suoi piani; la osservò procedere, probabilmente non visto, e dopo qualche secondo di smarrimento, contrariato, ne seguì i passi a debita distanza.

A freddo la riflessione divenne inesorabile: le congetture fantasiose che avevano ipotizzato un semplice incontro chiarificatore non erano altro che chimeriche sovrastrutture, pura immaginazione, ormai non aveva più nessuno da attendere.

Eppure la memoria lavorava, si volgeva al passato, a quando ancora non la conosceva e al massimo incrociarono qualche sguardo nelle aule a tribuna, finché probabilmente si accorsero, nel secondo anno, che frequentavano diversi insegnamenti comuni, si arrivò prima a scambiare qualche battuta, fino all’appuntamento fisso nell’atrio dove si producevano in vere e proprie conferenze, trasferite a fine anno anche all’esterno con soluzioni più dialogiche e qualche sorta di avance da parte di lei.

Entrambi trascuravano ormai le altre conoscenze, si attendevano, si cercavano, si trovavano, cominciavano a frequentare insieme eventi, il rapporto non dichiarato da due anni si faceva sempre più intimo, fino all’arrivo dei primi baci, un’esplosione di passione: la relazione ebbe inizio.

Ma non è questo il nostro interesse, lo è piuttosto la personalità di Lisa fusa alle sue stesse idee, alla sua filosofia, che pare ella sperimentasse nella pratica.

Sostanzialmente Antonio sembrava non avesse capito granché, semplicemente perché non è tipo da giudizi sommari, altrimenti gli apparirebbe tutto chiaro, ma questo lungo tempo della loro conoscenza rivelava dei fatti, apparentemente su due livelli, uno personale e un altro ideologico/sperimentale.

L’analisi del primo livello è apparentemente normale, una conoscenza progressiva, piuttosto lunga, a tratti colta, che poi subisce un’accelerazione più esplicita da parte di lei, ma teorica. Il passo decisivo è demandato al maschio, e perché? Qui subentrano le idee della ragazza, che si è presto definita di destra (“un’altra fascista!” commentò tra se Antonio, sempre stato di estrema sinistra, ma che calamitava una fascista dietro l’altra, e manco sarebbe stata l’ultima, tanto che la cosa rappresentava un fenomeno che cercava di studiare, dandosi al momento vaghe soluzioni).

Tuttavia Lisa era poi passata a militare in Rifondazione comunista con l’intervento di un’amica, ma questa altalena non si fermò lì, tornò a simpatie fasciste e di nuovo comuniste, fino a non saperne più lo stato al momento in cui la perse completamente di vista diversi anni dopo, quando da tempo entrambi avevano concluso gli studi e creato famiglie autonome.

L’ipotesi di Antonio era che lei, con tutta una serie di relazioni concomitanti, sperimentasse le più svariate reazioni dei partner, continuando peraltro in qualche modo a interagire, nel presupposto che riuscisse a manovrarli.

Dopo due anni di conoscenza e un mese di relazione, la chiudeva d’autorità: NICHTS! KEIN! Si comportava da “captiva”, simulava di essere prigioniera, ma poi veniva fuori la malvagità: dalla cattività alla cattiveria, secondo un modus pensandi assolutamente fascista.

Dietro questo stava tutto un copione letterario, ci fu perfino il romanzo galeotto: lei prendeva, gestiva, dirigeva, perfino i silenzi, gli scambi accademici e le attività, poi “razionalizzava”.

Scrisse Virgilio, illustremente citato, “Adgnosco veteris vestigia flammae”, trattavasi certamente di altra fiamma… sebbene anche lui fosse fissato con la patria italica.

86 fasciste!

33 Fasciste! (83 – XVIII.XXX- 6/11.4 a) a 1-4.7.2022

IN LAUREA DI ANNA ALESSI

Vorrei esordire parlando di sogni, vorrei, ma nonostante abbia un’infarinatura di cose lette e sentite, nonostante abbia letto qualche anno fa “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud, non credo di aver acquisito molte competenze, anche perché quando si hanno multipli interessi e i sogni, benché rappresentino un fenomeno che ispira curiosità, non sono le tue priorità, le informazioni acquisite regrediscono.

L’interesse su un proprio sogno, peraltro, può variare a seconda del suo contenuto, possono esserci sogni abbastanza crudi, piacevoli, surreali, comuni, incubi e via dicendo.

Quello che ho ora in mente è un sogno fantastico, piuttosto surreale, ma basato su un fatto che accadeva proprio mentre lo sognavo: la laurea della mia cara amica Anna. Potreste pensare a strane sessioni di laurea notturne. No, in realtà, il giorno precedente avevo dato un esame, per cui quella mattina mi svegliai piuttosto tardi dopo giorni di studio intenso, insomma, fu un sogno mattutino, che aspirava al pseudo-profetico.

Peraltro Anna si laureava con una tesi su Carlo Levi, quello di “Cristo si è fermato ad Eboli”, del quale avevo letto e scritto ancora adolescente “Paura della libertà”, arte filosofica meno surreale, ma per me allora piuttosto ostica, ma l’adolescente può!

A distanza di tempo il ricordo del sogno, già complesso in se, si è fatto vago, l’unico soccorso posso averlo dai versi che scrissi nell’immediato, sia per omaggiare Anna, sia per la particolare coincidenza, nonché per la particolarità dello stesso.

Diciamo che ho sempre amato il cinema surreale, da Bunuel a Jodorowsky, da Arrabal a Makavejev, fino a Kieślowski e quant’altri, ma per definizione quel genere di racconto, quel tipo d’arte, è piacevole come tale, per i suoi quadri, i segmenti, al di là di qualsiasi tentativo di interpretazione e comprensione, benché ci si avventuri in quell’esercizio; più o meno è così anche per il sogno.

Il reportage onirico in oggetto (per il gran caldo? Fine marzo… quando non si capisce se si devono o meno alleggerire le coperte) era preceduto o iniziava con una sorta di incubo, visione di piccoli rettili, forse fobie recondite o ancora presenti, una sorta di transfert nell’impegno che stava sostenendo l’amica, o semplicemente una sorta di suggestione legata a tutta una complessa attività di studio, tra spleen, ça ira, ennüi… Simbolismi strani, ermetici, in una sorta di carrellata, finché nel sogno mattutino si intravede una figura in primissimo piano, con particolare sulla nuca che mostra una sorta di tatuaggio; è una sorta di stacco, di cambio di scena, perché si fa lentamente nitido il volto di Anna, fino alla figura intera. Siede su un alto sgabello al centro di una delle nostre aule universitarie, la sua immagine è statuaria, silente, mentre lo sguardo onirico inquadra una teoria di volti, è la commissione che la interroga. Mi trovo là, forse avrei voluto esserci, i dieci saggi mi vedono, capto la loro attenzione, una specie di comunicazione, una situazione che non è dato interpretare, ma che combino con i miei trascorsi sull’oggetto della tesi, su Carlo Levi, anche pittore e la paura della libertà, i vari significati del sangue e la liberazione della donna ad essi connessa.

Ma è un sogno e come tale non ha una logica intelligibile come la realtà, pertanto riparte per la tangente e dove c’era Anna vi è ora il busto marmoreo di Cesare Augusto e un alternarsi di ermetismi sfingici. In realtà sono il lauro, l’alloro, la laurea.

A distanza di anni il ricordo del sogno è generico, nonostante l’averne scritto subito al risveglio offra ancora dei particolari. Furono momenti di meraviglia, stupore, come di un sogno telecomandato, ma neppure lontanamente immaginabile.

Appena possibile ne parlai con Anna che si mostro molto curiosa del fatto, mostrò gradimento e le donai la pergamena con il testo dei versi che composi appena il giorno dopo. Naturalmente mi chiese del significato di quei versi così enigmatici, cercai di fare del mio meglio, ma io stesso ero colto alla sprovvista; scrivere di un sogno è come scrivere sotto dettatura senza la possibilità di poter avere assoluta certezza del senso di tutto.

Mi sono sforzato di essere leggibile, il resto lo lascio agli interpreti di sogni altrui, anche se devo confessare che una mia teoria ce l’ho, ma, pensate un po’, non la rivelerò, benché abbia molto del segreto di Pulcinella.

90 in laurea

32 In laurea di Anna Alessi (86 – XX.XXXIII – 31.3 a) a 20-23.05.2022

BRESCIA SUGGESTION

L’entusiasta sorride ed è felice per poco, figuriamoci per un viaggio avventuroso a Budapest, in tempi ancora di pace, in tempi in cui non c’erano i governanti reazionari che hanno sensibilmente inquinato la già instabile democrazia europea, gli Orban, Zelensky, Putin, Duda, per non parlare degli extracomunitari Biden e Johnson… e dei nostri innominabili.

Il treno riattraversa Croazia e Slovenia. Lui vive di rendita, delle soddisfazioni trascorse, si addormenta e salta Trieste, la sua fermata. Ma poi… è straordinario come un luogo possa immediatamente trasformare le sensazioni e portarci in una nuova dimensione, benché si sappia da dove si viene.

Ed ecco la stazione di Brescia, è come cambiare capitolo, parte, storia, romanzo; tutto ha un nuovo inizio, la consapevolezza di essere sotto il suo cielo accende il desiderio e la passione, allora osserva, in una sorta di sensazione tridimensionale: suggestione, astrazione, lucidità, lei non c’è, ma la vede, cammina di spalle verso l’uscita, e inizia il sogno ad occhi aperti, il film, chi gli sta accanto diventa lei, una tempesta di emozioni.

Camminano insieme per le strade di Milano, la sua città d’adozione, del suo successo, ove vive le sue svariate dimensioni, il percorso è quasi banale, nel senso che rivisitano luoghi già visti una marea di volte, zona Centrale, Duomo, Galleria, Scala, Omeoni, Statale. Discorsi seriosi superati da pensieri diversi, approcci dominati, tuttavia progettati all’infinito, e sguardi languidi, risolti in un’esplosione di passione appena contenuta, abbozzi di baci e carezze, abbracci camuffati.

Vi è una consapevolezza non rivelata che ormai invade entrambi, siamo al gioco assurdo, tra trasparenza e simulazione. Lui cerca la sua anca, un messaggio del corpo manifesto, ormai percepisce le sue morbidità, confusamente la invita a sedere nel parco, i corpi sono ormai appiccicati, anche le guance, benché i visi continuino a guardare dritto davanti a loro, consapevoli che un incrocio di sguardi sarebbe fatale.

Il suo seno pulsa visibilmente, si scopre nonostante l’umidità del pomeriggio settembrino, che diventa pretesto per un insidioso abbraccio. Due menti cercano ormai una via d’uscita, i corpi sono pressoché ignari di dove si trascinano. Un angolo del palazzo occupato della Statale sarà la loro baita, dove raggiungerà il suo letto e il buio sarà galeotto over and over.

Un intelletto passionale sogna spesso a occhi aperti, elabora le sue visioni sviluppando incontri, segnali, fantasie, parole, si astrae di giorno, ci dorme la notte. Al di là della bizzarria in se, diventa uno strumento fondamentale anche per superare qualche momentaccio, come quelli che si vivono oggi e ispirano invero pensieri meno gradevoli.

Dunque, a mio avviso, l’elaborazione di un episodio anche trascurabile può diventare una sorta di rimedio da applicare secondo necessità, non diversamente da una tisana, un frutto, un dolce, insomma un metodo per essere positivi.

Un pensiero riguardo alla scrittura, un modo di concepirla. Un racconto di qualsiasi genere (ad eccezione di un lavoro scientifico, storico o saggistico) deve avere necessariamente un aggancio con la realtà, perché in questo modo acquisisce un valore aggiunto, può ad esempio essere una norma per affrontare in modo letterario un fatto che ha avuto nella realtà un epilogo differente, con tutta la miriade di possibilità di altro tipo, dunque realtà e fantasia che lavorano insieme per raggiungere i risultati svariati più compositi.

Questa opinione non viene sostenuta da chi ritiene che un’opera letteraria, come anche un romanzo, una poesia, non tanto debbano, ma possano essere completamente di pura invenzione dell’autore, senza alcun riferimento alla realtà. Da parte mia ritengo che questo sia anche possibile, ma da un lato vedo difficile che chi scrive un testo di valore possa prescindere completamente da qualsiasi tipo di esperienza diretta: non troverei qualcosa di totalmente avulso dalla realtà particolarmente interessante, al contrario ritengo che anche un minimo riferimento a qualcosa di realmente accaduto dia al lavoro, appunto, quel tocco di interesse in più anche per il lettore, specie per quello più attento, che ama ritornare sulla scrittura, sulla biografia dell’autore, scoprire gli agganci con la sua storia e dare all’opera un plus valore, un maggiore interesse.

Per questo la letteratura ha giustamente una sua storia, i suoi periodi, i suoi stili, le sue correnti.

101 linda's suggestion

31 Brescia suggestion (97 – XXIII.XXXIX – 19.2 a) a 25-27.4.2022

 

I COME FROM BUDAPEST

E’ possibile superare il personale senso del pudore? E’ un problema che andrebbe analizzato, magari anche risparmiando Freud. Il problema è sì personale, ma anche molto politico, e se vogliamo, insieme, sociale. Ho sempre rifiutato le annose censure che tiravano in ballo il comune senso del pudore: nessuno è obbligato a vedere, leggere, ascoltare, qualcosa che lo disturbi; si informa prima o al limite se ne va. La faccenda è che chi tirava in ballo questa locuzione reggeva benissimo i contenuti rappresentati, ma non accettava che potessero avere una diffusione popolare e interveniva con richieste censorie soprattutto per il gusto di amplificare le proprie prurigini oscene. C’è una vasta letteratura e cinematografia in proposito. Sembrerebbe un argomento superato da lustri, ma invece la censura fa di nuovo capolino e molto a sproposito.

Ma l’incipit non ha nulla a che fare con queste storie del passato, riguarda esclusivamente il pudore personale, qualcosa che può spingersi fino all’autocensura o meno, a giudizi di opportunità complessi e differenti, che possono variare in base alle persone eventualmente coinvolte, al grado di conoscenza e intimità: dunque evidentemente prendono in considerazione il giudizio degli altri, altra espressione sovente oggetto di contrasto. Eppure tale giudizio non può avere alcuna importanza se non per le persone a noi care o che ci interessano a vario titolo, le uniche cui potremmo dare tranquillamente spiegazioni. Ben inteso, ciò è fattibile, se ce ne fosse bisogno, anche verso un pubblico “altro” e non polemico, o almeno dove l’eventuale polemica non superi il rispetto e non sia pregiudiziale.

Questo prologo è forse eccessivo rispetto a contenuti che voglio affrontare e ho già affrontato, eppure i tempi presenti ci stanno abituando a mettere le mani avanti, perché l’esercizio del voler intendere una cosa per l’altra, è uno dei più diffusi. Siamo al doversi districare tra prudenza e azzardo, specie se l’equilibrio non paga…

L’estate è ormai giunta al suo canto del cigno. A Trieste di sera cala il fresco e oggi si è alzato anche un forte vento, il treno per Budapest partirà alle 23,30 dal binario 7; intorno ci sono già vari gruppi di persone, il più folto è composto prevalentemente da ragazze e il nostro viandante incrocia immediatamente lo sguardo di Ghina e ciò si ripete e si ripete. Lei è una ragazza rumena, torna a casa dopo una trasferta in Francia, il suo gruppo viaggia in treno, evidentemente a tappe. E’ carina, ma si distingue rispetto alle altre per l’essere la più espansiva, vivace e spigliata, una leader in qualche modo, ma sa essere anche riflessiva, attenta.

Al momento di salire in vettura lei e Tony, apparentemente inavvertitamente si urtano leggermente, lei dice subito “Sorry!”, ma l’imprudenza è stata di lui, che infatti farfuglia qualcosa in una lingua probabilmente inesistente e non fa a meno di elaborare l’episodio come un pretesto per attaccare discorso, almeno vorrebbe…

In treno, guarda caso, lei gli sta di fronte… la fissa con insistenza, come per una sorta di capriccio; lei non sta ferma, fa dei giri sul treno, si spinge a commentare quegli sguardi con esclamazioni monosillabiche di misteriosa interpretazione, una sorta di presa d’atto dell’interesse destato, tuttavia non trovano modo di rompere il ghiaccio; lui anzi, forse per rivalsa, attacca discorso con una Croata, molto scandalizzata perché il suo paese non è stato ancora accolto nella UE, specie quando apprende che invece è già dentro l’Ungheria e la Romania sta per esserlo. Il dialogo è una cartina di tornasole importante per Tony che si fa un’idea delle rivalità popolari negli stati dell’est. La ragazza però scende a Zagabria. Il treno sostanzialmente si svuota, ma il gruppo rumeno movimenta la serata e Ghina è una di quelle che richiama l’ordine. Quando è ormai tardi si siede nello scompartimento alle spalle del ragazzo, che può vederla perché nella penombra i vetri del portabagagli fungono da specchio: è sola e pare cerchi di dormire, lui veglia, ma poi si addormenta. Al primo risveglio notturno se la ritrova accanto, è un segno troppo evidente perché possa ancora temporeggiare… “Sa o Roma, daje, daje, oro khelena daje…”.

Poco dopo l’alba il treno attraversa boschi e il lago Balaton, lei è già via, “confusion”… La vede appena a Keleti che confabula con un’amica… Ricorda un episodio accaduto a Parigi anni prima, ma lei era bolognese. Ci riflette, pensa esista davvero un linguaggio non eloquente a lui sconosciuto, come i famosi “tempi del libero amore”: capita di trovarsi in situazioni arcinote, ma che a qualche protagonista sfugge fossero così precisamente attestate.

………………………….

A Budapest è una giornata di sole, ma soffia un venticello gelido che ghiaccia gola e polmoni… Tony ha il treno alle 17,20 per rientrare a casa. Trova un’atmosfera diversa rispetto all’andata; è pieno di italiani questa volta, un caos di bagagli e biciclette, il suo posto è occupato, si sistema altrove.

Davanti ha una ragazza ungherese, tipo Ilona Staller agli esordi, attrice, ancora senza coroncina, capelli neri, occhi azzurri, seno esplosivo contenuto in un tight bra e lunghe gambe. Si chiama Csilla, è curiosa, sola, molto espressiva e altrettanto riservata. Si guardano costantemente, si sorridono pure, complici rispetto al baccano terribile della carrozza, che la rende anche scomoda; lei è gentile, comunica per lo più con lo sguardo. Lui vuole capire se scenderà presto o se è diretta addirittura in Italia, allora glielo chiede in inglese, lei risponde secca “Niet”… Gli viene il dubbio che sia russa o che l’espressione si usi anche in Ungheria. Ma il suo tono è scoraggiante, lo intimidisce e tace. Mangia disinvolta un panino e fa una telefonata, l’unica parola che egli coglie è “ziya” (termine comune a molte lingue slave)… Sta andando a trovare una zia?

(Solo molti anni dopo elaborerà un’idea sul carattere comune delle ragazze dell’est in base alla sua esperienza: esse, in genere molto belle, mostrano un costante sorriso che le fa apparire dolci, e lo sono, ma insieme possiedono una innata determinazione – che può incupirle o meno a seconda delle situazioni – e non mancano di mostrarla, anche con il sorriso, nelle situazioni che ritengono necessarie, come una sorta di propedeutica genetica all’autodifesa).

Si convince che scenderà in Ungheria, allora osa, la invita a sedersi al suo fianco (“Come here”), lei si alza e acconsente… Incredibile! Ha l’impulso di pizzicarsi… Nagykanizsa è quasi al confine.

100 I come from budapest

I come from Budapest (96 – XXII.XXXVIII – 9.9 fonyod) a 21-24.3.2022

ABOUT PROMENADE…

L’io, l’intimità, l’amore, cosa c’è di più personale e più intimo dell’amore? Niente probabilmente, anche perché racchiude un’infinita scala e varietà di sentimenti: l’amore davvero, se mi si consente la licenza, si può graduare come un vino, dal più forte al più leggero, da quello dolce a quello secco e si potrebbe continuare con le distinzioni. Sicuramente ogni amore è diverso, ma la gradazione può accomunarli nella diversità. Quelli dolci sono piacevolissimi, non danno grandi fastidi, quelli forti possono far male, sono struggenti, uniscono la gioia, il piacere, alla passione e talvolta alla sofferenza, al dolore, eppure sono quelli più voluti, mai dimenticati.

Questi ultimi amori, essendo di meno, sono più facili da ricordare. Immagino che ciascunǝ abbia un personale metodo per individuarli. Per quanto mi riguarda è tutto molto naturale, vi sono alcune gradazioni di passione, sentimento, riconoscibili nell’immediato o anche con il tempo e quelle più alte oltre ad essere riconoscibili per le caratteristiche e le comuni emozioni, rimangono indimenticabili e permanenti, i sentimenti persistono al di là dell’effettiva continuità del rapporto, perché il problema è che spesso nell’amore non vi è convergenza assoluta e duratura.

Mentre espongo un po’ sommariamente, ho in mente l’ultimo amore intenso, intensissimo; non devo ora raccontarlo, necessiterebbe, tenuto conto di vari aspetti, di un contenuto piuttosto voluminoso e complesso, intendo trattare qui di un sogno, immagino sia stato il primo che ha riguardato Lei, e se non è stato il primo, è comunque quello che appena sveglio ho subito annotato appena sveglio su carta di fortuna. Era allora talmente intenso il sentimento, la prima fase dell’innamoramento, durata peraltro molto a lungo, per cui sentivo il bisogno irrefrenabile di gridare al mondo che amavo lei, che il mio cuore era impegnato e voleva essere una sorta di impegno anche nei suoi confronti e lo feci dove tutto ebbe inizio.

Si è trattato di un amore abbastanza letterario, parlo ovviamente dal mio punto di vista, pertanto ogni momento, fin dal principio, è stato funzionale allo scopo, al sogno e quant’altro.

Anche i sogni sono di un’infinita tipologia, con differenti gradazioni di interesse. Non è mia abitudine trascrivere o ricordare i sogni, quando accade è perché mi hanno profondamente colpito, sono particolari e interessanti, danno magari lo spunto per scrivere, perché spesso si presentano in forma di racconto, seppur surreale talvolta, come una specie di dettato, di messaggio. Il senso di annotare il sogno è che capita di dimenticarlo dopo alcune ore, ma anche appena svegli non si ricorda per intero, solo sprazzi della parte finale…

Nell’autunno precedente avevo presentato a Roma la mia prima monografia, un saggio storico; lei non c’era, ma lo avrei tanto voluto. Peraltro potrei dire che quel libro, non solo, ma è anche stato “galeotto”: era in cantiere quando ci siamo conosciuti e lei ha seguito intensamente ogni momento della preparazione, tutto il percorso dell’editing fino alla pubblicazione e oltre… Lo stesso percorso c’è stato per me durante la formazione e la pubblicazione del suo.

Ormai è primavera, il tempo va a ritroso, sono di nuovo a Roma per la stessa presentazione, ma con lei. L’evento è previsto per il pomeriggio. Utilizziamo la mattina per una passeggiata. Ci troviamo all’imbocco di via Giulia, dal lato vicino al Vaticano. Via Giulia ha un grande significato per me, quando capito a Roma, se ne ho il tempo, la raggiungo e visito i luoghi memorabili, in particolare il liceo Virgilio.

Via Giulia è una via lunghissima, una passeggiata importante, la percorriamo tutta, ebbri di passione, fin dove congiunge con il Lungotevere a ponte Sisto. Ora, se si indaga sui titolari dei toponimi spesso si hanno brutte sorprese; quando è possibile li cito come indicazione decontestualizzata, tuttavia non riesco a citare quelli ancora intitolati ai Savoia, nemici della Repubblica e di tanto altro, lo so, tergiverso, ma è importante.

A proposito della passeggiata, essa è guidata da una marea di suggestioni: Minerva spira e conducemi Appollo (Canto II, Paradiso, Divina Commedia, verso 8). Sapienza e poesia scosse, sorprese, dalle nostre notti e dalla paura della libertà del nostro amore. Percorriamo via Giulia avvinghiati, ogni pochi passi un bacio sulla bocca, poi giunti in fondo, nello spiazzo che si apre verso il ponte, ci spogliamo del nostro casual e ci stendiamo sui sampietrini, mentre le acque del Tevere scorrono tranquille e sembrano approvare la nostra passione, così come il traffico che pare ammiccante e non ci dà fastidio… La presentazione sarà stupenda!

68 promenade

About promenade… (106 – XXV.XLI – 28.3 a) a 26.02.2022

SUONANDO SULLA NAVE

Il tema del viaggio ha innumerevoli sfaccettature dunque può essere affrontato in altrettanti modi. Non ho viaggiato troppo per i miei gusti, ma abbastanza per affrontare diversi aspetti del tema. Vivendo in un’isola e non amando il volo, la nave è stato uno dei prevalenti mezzi di trasporto dei miei viaggi e potrei descriverne tanti.

Partirei da un concetto generale: la differenza tra il viaggio e la vacanza, o almeno quali aspetti contenga il viaggio della vacanza e la vacanza del viaggio. Difficile compendiare tutto in poche righe, è più semplice scegliere una tipologia e svilupparla, anche perché si parla di aspetti per lo più soggettivi.

Il viaggio può ben essere il percorso da un punto verso una meta, ma più che il percorso grezzo, qualsiasi aspetto possa caratterizzarlo dal suo inizio alla fine. In questo senso un’esperienza di viaggio può anche essere spostarsi dalla propria residenza per pochi chilometri e con qualsiasi mezzo, perfino a piedi, come un viandante. In qualsiasi modo sia, ognuno potrebbe avere la possibilità di stendere un resoconto più o meno lungo anche di un viaggio minimo, perché ad ogni passo, ad ogni sguardo, si avrà certamente tanto da osservare. Ecco, vorrei dire che questo è il viaggio, più che l’essere meramente trasportato. Oggettivamente non è una grande scoperta, ma è utile per fissare il proprio punto di vista.

Dei tanti viaggi in nave gli aneddoti si sprecano: la prima volta in assoluto, al termine della  Scuola Media, dovetti combattere con il mare mosso e il conseguente mal di mare, che riuscii a dominare dopo qualche altro viaggio, stando supino ed evitando di mangiare. Gli approdi consueti – a parte quelli sardi – sono stati Civitavecchia e Genova; un po’ meno Napoli, ma ho avuto occasione di conoscere anche i porti di Livorno, Palermo, Ancona, Bonifacio, Dover, Calais, Igoumenitsa e soprattutto Patrasso, nonché porti della laguna veneta e lacustri, insieme a ciò che certamente mi sfugge.

I ricordi un po’ strani sono tanti, considerato che i miei viaggi non sono mai o quasi prenotati. Una volta arrivai al porto e presi la nave al volo, era il periodo degli attentati di Daesh e in quell’occasione vicino al posto che scelsi sul ponte per passare la notte, si riunirono a pregare una quindicina di arabi nelle loro tipiche vesti e figure; sotto l’effetto della suggestione, trascorsi dei brutti momenti finché il rito non finì e si dileguarono. Mi viene anche in mente la traversata con Patrizia, collega di studi, quando passammo la notte in fondo a una scaletta stretta che terminava su una porta chiusa a chiave. Memorabile la traversata della Manica contenuta in un passaggio autostop Parigi – Londra. O il ritorno dalla Grecia, in primavera inoltrata, trascorsi la notte in poltrona con l’aria condizionata a palla, sembrava di essere in un freezer. Non posso dimenticare i viaggi in cui del tutto casualmente incontrai delle amiche e le situazioni particolari che ne conseguirono. Ci sono poi tanti viaggi in solitaria in cui non è successo nulla, a parte lo spostamento da un porto a un altro.

Detto questo, si può tranquillamente stravolgere tutto e sognarlo il viaggio, entrare nella dimensione “trip” con un sogno volontario, una fantasia, e non mancherebbero gli esempi già scritti, suonati e cantati.

La nave non è ben definita, privata, pubblica, ci si sta in compagnia con una chitarra che la fa da padrona e soprattutto fa un gran casino, in certi frangenti gradito alle nostre orecchie, magari non troppo ad altre, comunque attira certamente l’attenzione, sorrisi o riprovazione.

Il suonatore è quello che trae il maggior beneficio, in sintonia con il viaggio, con il moto dell’imbarcazione, in una fusione sensazioni che contemplano perfino le sue dita che scorrono sul manico tra tasti e corde e l’altra mano che strimpella sulla buca del corpo dello strumento, come in un rituale nirvanico che lo fa sentire libero e leggero, tra suono e acqua, ove la mente si immerge e gli pare sentire la pompa distorta di Sgt Pepper’s lonely hearts club band insieme al surreale strumentale di A day in the life.

E come in quest’ultima s’interrompe repentinamente la musica, il cantante si blocca e apostrofa il chitarrista, tra l’esclamativo e l’interrogativo “Ma che cazzo stai suonando!?” e fa un gran danno perché interrompe l’evasione, i pensieri, l’ispirazione psichedelica, in sostanza interrompe il sogno e la verità effettuale.

Da questa fantasia istantanea nasce una canto sillabato alla maniera di Demetrio Stratos (ex Ribelli, ex Area), scomparso prematuramente il 13 giugno 1979:

QUE-sta CAN-zo-n’è TROP-po RU-mo-ro-sa
PER non PO-ter AT-ti-rar l’AT-ten-zio-ne,
LE mie DI-ta SCOR-ron SUL-la CHI-tar-ra
LI-ii-ii-ii-BE-ee-RA-aa-aa-MEN-te. (…)

È il sogno di un viaggio mai avvenuto, forse desiderato, perché talvolta il sogno parte da una smania, ma si trasforma e parte per la tangente. Sogno di un’altra epoca…

37 suonando sulla nave

Suonando sulla nave (37 – V – 7.4 ca) a 23.01.2022

LIBERAZIONE

Penso che a chiunque sia capitato di scrivere, al di là della lista della spesa o del taccuino degli impegni, ma c’è chi, al di là della sporadicità, scrive da sempre, diciamo pure che ha scelto la scrittura come sua occupazione, non come fonte di reddito, dunque non come lavoro… Quella è un’altra casistica che sotto certi aspetti può non andarmi a genio: se percepisco che qualcuno scrive per contratto penso non valga la pena di leggerlo, almeno se quello è lo scopo della sua scrittura.

Per quanto mi riguarda posso dire che la scrittura è andata diventando progressivamente una delle mie occupazioni principali. Ho ricordo di miei scritti fin dalla scuola elementare, tenevo un apposito quaderno dei cui contenuti posso solo fare supposizioni, perché finì al rogo in occasione di qualche brutto voto riportato nei quaderni “ufficiali”…

Iniziata la scuola media la scrittura trovò spazio nei diari, in quaderni, in lettere, prima in forma disordinata e da un certo punto in poi più metodica; da adulto ho cercato di recuperare il più possibile di quanto scritto allora, non perché si trattasse di capolavori o qualcosa di lontanamente simile, ma perché costituiva degli step della mia formazione. Per questa ragione mi sono preso la briga di pubblicare parte di quelle cose anche “banali”, solo in quanto rappresentavano il documento di un percorso.

Con il tempo di esperienze di scrittura ne ho fatto tante e un po’ di tutti i generi, dagli articoli su stampa quotidiana e periodica ai blog, dalla scrittura di versi al racconto e alla saggistica. Essere filologi di se stessi è divertente, ma anche molto impegnativo.

Insomma nel campo della scrittura ho cercato di non farmi mancare quasi niente, neppure l’improvvisazione. Non è un genere cui sono aduso, chi non è avvezzo a improvvisare cade necessariamente in forzature; ovviamente apprezzo quelli bravi. In Sardegna abbiamo sos poetas e sos cantores, posso vantare di averne avuto uno tra i miei avi. Ma il certame poetico, il contrasto o tenzone è abbastanza diffuso anche nel continente. Al giorno d’oggi c’è il rap e i dissing, ma in mezzo all’inflazione ci sarebbe da fare una drastica selezione.

Una delle mie storiche improvvisazioni avvenne in quarta superiore durante l’ora di lezione e al primo banco. Quei brani scritti in quel modo inizialmente non furono riconosciuti, ma li avevo conservati, quasi come mosto che avrebbe potuto diventare vino, non lo diventarono, ma con il tempo acquisirono il titolo di documento, mica poco!

Quella sorta di flusso di coscienza (ante litteram, perché allora non conoscevo Joyce) realizzato con il mio compagno di banco, produsse sei brani, il primo parla di viaggio, dei desideri di un periodo in cui si aspira a essere più grandi per avere più libertà di movimento, ma questa smania viene sostanzialmente contenuta da una sorta di realismo, lo spauracchio della routine.

Quale può essere l’idea di viaggio di un adolescente? L’autostop…Alzarsi all’alba, raggiungere l’autostrada e alzare il pollice… Avevo già fatto le mie prime esperienze in tal senso, ma per spostamenti limitati, non avevo ancora letto Kerouac.

Diciamo che al giorno d’oggi, con la pandemia, cambierebbe anche la prospettiva del testo, non so se si pratichi ancora l’hitch-hiking, sicuramente non con la stessa disinvoltura di un tempo. Ma anche allora non era tutto scontato, capitava di aspettare per ore che un’automobile si fermasse; così nella carriera di un autostoppista, insieme a camminate di chilometri per trovare una postazione migliore, diventavano leggendari i passaggi lunghissimi. A memoria il mio passaggio più lungo è stato Geisingen – Koln di 474 km.

Mi vengono alla mente i ricordi di decine e decine di viaggi in autostop, anche in parte dell’Europa; non ho mai preso nota di essi, ma di tanti ho dei ricordi. La maggior parte di essi riguardano l’attesa del passaggio, raramente del percorso.

Ottenere un passaggio è sempre un sollievo, una sorta di liberazione, di corsa verso l’imprevisto, verso la montagna, il mare o qualsiasi altro luogo spesso sconosciuto. Il senso di leggerezza è tipico di quei viaggi e ogni ricordo è ormai gradevole,  anche dei tratti percorsi a piedi. Eppure in qualsiasi viaggio la meta ultima è casa, il ritorno, il tuo letto e all’inizio anche il ritmo abituale è gradevole, almeno quanto basta per aver bisogno di un nuovo viaggio.

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Liberazione (34 – V – 7.4 ca) a 29.12.2021

UN SOGNO

Gli scritti adolescenziali sono spesso carichi di retorica e rimpianti, benché almeno questi dovrebbero essere ancora molto lontani, tuttavia si vogliono bruciare le tappe e ogni stop è motivo di delusione.

Riletti acriticamente questi scritti appaiono imbarazzanti, ma se si è capaci di contestualizzare gli avvenimenti e le emozioni di un’epoca ormai trascorsa, eppur viva, tutto emerge in una dimensione differente.

Le pene prevalenti di donne e uomini in ogni tempo sono gli amori, ma quelle giovanili, le prime, hanno un sapore particolare, sono spesso lancinanti, intense come se non ci fosse un domani, un’altra possibilità. La vita poi insegnerà a coltivare la speranza e a dimensionare la sofferenza.

Gli amori giovanili sviluppano energie impensabili, dove basta uno sguardo, un sorriso, un contatto, una carezza, a farci perdere la testa, a mettere in moto un mondo sconosciuto di sogni, gelosie, strategie, perfino; ciò soprattutto in teoria, nella realtà si sviluppa piuttosto la paura di fallire, di poter risultare illusi e inadeguati, è qui che l’adolescente, se ne ha l’estro, si rifugia nella scrittura, nel romanticismo, nell’arrendevolezza e indulgenza verso se stessi e in ultima istanza, dopo la confusione e l’incertezza, verso l’oggetto dei propri sentimenti.

Tali drammi si consumano preferibilmente nelle feste che i ragazzi si inventano con un pretesto qualsiasi per riunire il proprio gruppo, anche minimo; solitamente la sceneggiatura è preconfezionata, chi ci prova con chi, chi balla con chi e nel caso le cose dovessero assumere una concretizzazione differente, sorge il problema.

Le variabili in questi casi sono infinite. Una delle tante potrebbe essere che a te piace una ragazza in assoluto, ma hai già realizzato che non è cosa, dunque scegli un ripiego, ma neppure tanto, perché anche quello mostra le sue difficoltà. Per di più l’abbandono della strada maestra moltiplica le problematiche che inizialmente erano solo tue.

Un fallimento totale. Quella che ci si aspettava tu dovessi corteggiare combattendo con i denti e con la quale era da tempo aperto un discorso con risultati alterni, capisce di essersi liberata di te senza alcuno sforzo; l’altra, più piccola, intende di essere un ripiego e ha gioco facile a negarsi: uno sputtanamento che ti preclude terze vie.

Torni a casa con un senso di amarezza, il tuo stesso io si prende gioco di te, recrimini, cerchi soluzioni e concludi che non ti resta che il sogno. Tuttavia sai bene che quello va per i fatti suoi, non procede secondo i tuoi desideri; rimane il sogno ad occhi aperti, l’elucubrazione. Almeno così puoi addomesticare la realtà e volgerla a tuo piacimento.

La piccola ninfa mi si avvicina e mi si abbandona palesemente, sono io a sentirmi un ripiego, visto che non ha trovato rifugio altrove. La situazione è imbarazzante, da adolescenti pochi anni di differenza sembrano tanti e lei è piccola, mi sento ridicolo e rifiuto. In realtà lei è carina, formata, matura quanto posso esserlo io e in questo sogno rivalsa non mi va di essere indelicato, così le spiego di non poter stare con lei perché mi piace un’altra e lei lo sa bene.

La sua espressione è eloquente, si allontana senza proferire parola, mi sento talmente in colpa pertanto la richiamo. Si volta, mi guarda dolcemente, ma è un attimo, in realtà ha voluto canzonarmi, neppure tanto perché poi è scappata via furibonda avendo interpretato che nella mia nuova decisione ci fosse compassione.

Visto che ci siamo spinti fino a questo ribaltamento della realtà, completiamolo interamente: ecco qual è il problema con la ragazza che vorrei, è certamente quello di aver inserito nel mio sentimento, nel mio affetto, una sorta di indulgenza, forse aver mascherato sotto il desiderio, l’attrazione, la remissività eccessiva rispetto al nostro differente modo di vedere le cose e sostanzialmente al diverso modo di essere; come dire, l’incapacità di apparire amabile, con un io meno ingombrante.

Il sogno ad occhi aperti, quando in fondo è una riflessione sul proprio essere e benché da una partenza egoistica pervenga, anche attraverso il ridimensionamento e l’autoironia, a una sana autocritica, può insegnare ad essere più positivi, a sapersi dare, spendersi meglio e risultare piacevoli, nella consapevolezza permanente che in tutto ciò non vi sono evidenze scientifiche.

2 un sogno

Un sogno (2 – II – 17.9 a)  a 29.11.2021

SENZA ETÀ

Il problema è il suono del mare, la sua voce (se parla), il suo dittare. Cos’è il mare? È un immenso blob o è una pluralità di acque che hanno diversi suoni, diverse voci e parlano a chi vogliono parlare e a chi vuole ascoltare? Complesso è complesso il mare, né più né meno di quanto possa esserlo l’umanità, qui fa una cosa, là ne fa un’altra, qui calmo, là mosso, agitato, in burrasca, tempesta, uragano. Le variabili sono tante e interagiscono con il resto della natura, dai venti allo stesso uomo e la natura cambia, come i venti, come le persone. Insomma, se sono nella costa di Arborea o di Pistis, non sono né a Scilla, né a Cariddi o in ciascuna delle altre centinaia di migliaia di spiagge del mondo. Per limitarci al mar di Sardegna avremo un centinaio di suoni diversi moltiplicati per tutti i giorni di ogni millennio. Questo discorso ozioso porta al punto: cos’ha detto quel mare quel determinato giorno.

Il mare parla per incantesimi con il suono dei suoi flutti, una voce che si ripete ossessivamente e puoi recepire il suo messaggio se ti circonda il silenzio, allora ti folgora, ti ispira e detta e se detta devi notare perché è preciso. Se il mare asseconda il tuo pensiero sarà più facile capire.

Riconosco la calma risacca che si infrange sulla sabbia a riva, perfino le spugne, agglomerati di fibre d’alga, sono immutate, come pure i nastri di poseidonia, la spiaggia è deserta, selvaggia, evidentemente non ambita, l’aria è tersa e i capi della Frasca e di san Marco di Tharros sono chiari all’orizzonte.

In questo contesto, il mare dice che anch’io sono lo stesso e sarò lo stesso ogni volta che ci tornerò, come tutte le volte che ci sono già stato, che mi distenda all’ombra o al sole. Il pensiero allora vaga leggero e senza età, a quelle tante volte, alle varie circostanze indubbiamente differenti, benché io sia lo stesso ora e allora. Lo sciabordio mi riporta i clamori familiari, misti al suono dell’acqua e della brezza e altre decine di situazioni, apre la mente, quasi ti fa paura tanta è la sorpresa, la rivelazione: non ho mai avuto età come è vero che sono io, è così da sempre e lo sta dicendo il mare con il suo suono d’onda, con le acque che partono cerimoniose dai due capi del golfo a comporre il messaggio che giunge a destinazione.

Le dispute filosofiche o empiriche sono tante, quella sulle questioni dell’età anagrafica ha la sua importanza, la sua rilevanza, la sua incidenza nella vita sociale. Può apparire ridicolo, ma è così; lo dico per averlo sperimentato, ma è superfluo perché è un fenomeno noto, che si ripete puntualmente quasi tutti i giorni, ed è soggettivo solo fino a un certo punto in quanto la società è orientata a considerare l’età anagrafica discriminante riguardo a molti comportamenti anche a prescindere dal concetto di età biologica. Prima o poi tutti ne avremo l’opportuno riscontro.

Dover assumere certi comportamenti in base all’età che appare sui documenti (fatti salvi quelli che la natura stessa impone) è una palla al piede quasi in ogni momento della nostra vita.

Cito spesso alcuni esempi limite accadutimi per il fatto – a sentire i più – che dimostri meno anni (ciò, se possibile, penalizza due volte): a 18 anni fui cacciato da una sala da biliardo perché ritenuto molto più piccolo; per la stessa ragione le ragazze neppure ti calcolavano; a 23 anni – in occasione delle mia prima esperienza di insegnante – il bidello mi strappò il registro di classe di mano ritenendomi un alunno… e così via. In età adulta accade il contrario, ti capita di essere approcciato a pelle da persone molto più giovani che appena conoscono la tua età anagrafica cambiano atteggiamento.

Mi rendo benissimo conto che non si tratta di un comportamento assoluto, ma anche che l’atteggiamento sociale prevalente va in questa direzione e non ci sono Zero che tengano, né enti, enta o anta. E quando si parla di società, si parla oltre che di retaggio storico – che può avere un suo valore, ma è solo un valore storico – di progresso, che proprio perché è tale deve tener conto anche di un’evoluzione della mente umana: conoscere la storia non per imitarla, ma per trarne insegnamento ed evitare di ripetere errori.

Comprendo anche che si tratti di un problema effimero rispetto a quelli che coinvolgono il mondo in questo momento, ma se abbiamo sempre creduto che il personale sia politico, come non ci insegna solo il Sessantotto, ma perfino qualcuno come Tolstoj in “Resurrezione” o in “Guerra e pace” e non solo lui, non potremo mai occuparci al meglio della società, dell’universalismo, della fratellanza, se non anche curando ogni aspetto della nostra esistenza, anche privata.

senza età

25 Senza età (99 – XXIII.XXXIX – 29.6 arbo) a 29/31.10.2021

NEI NOSTRI VERSI NON CI SON LE MADRI

Quando anni fa mi proposero di scrivere versi sul tema “La madre”, mi interrogai sul perché non ci avessi mai pensato e in realtà non avrei saputo da dove cominciare, né peraltro avevo presenti esempi di qualcuno che si fosse cimentato su questo tema.

“La madre” non è qualcosa di indefinito, non è la madre di chicchessia, è precisamente tua madre; non è un tema che tu, o almeno io, potessi pensare di rendere pubblico a chiunque, per pudore, per rispetto o per qualcosa di interiore che comunque ti impedisce di trattare un argomento così personale.

Ero disorientato, ma considerai l’argomento da un mio punto di vista possibile, intimo, ma anche sociale, oltreché letterario. Portai a termine il lavoro e lo definii, con una sorta di neologismo: parametodologico, ovvero adottai una sorta di metodologia creata ad hoc, un po’ per togliermi dall’impiccio, una sorta di dire e non dire, di mescolare gli elementi citati.

Non ho mai fatto una ricerca, né al momento intendo farla, su quanti, illustri o dilettanti, si siano cimentati su tale argomento, tuttavia (a parte un romanzo della Deledda letto tempo fa) ho la sensazione che non ci sia una quantità enorme di materiale, così specifico intendo.

La mia riflessione produsse delle problematiche, non drammatiche per carità, ma una sorta di senso di colpa che collettivizzai: le madri erano dimenticate in qualche modo nei versi, negli scritti, raramente erano protagoniste e più spesso semplici comparse, l’urlo di protesa sorse spontaneo: nei nostri versi non ci sono le madri!

A pensarci bene è sconvolgente che chi ci ha dato la vita sia messa in secondo piano rispetto a tanta altra gente, ad altri affetti, nelle opere letterarie s’intende, non certo nella vita, ove l’affetto per una mamma è sicuramente universale.

Non ho fatto indagini, ma ho richiamato alla memoria l’infanzia in cui la madre è la persona più presente, ho frugato tra i versi delle maggiori opere letterarie classiche – e più modestamente anche tra i miei – per vedere come venissero trattate, nonché tra le righe della cronaca, spesso spietata, non contestualizzata e scandalistica.

Ai ricordi di mia madre si legano strettamente quelli di mio padre – la fortuna di avere avuto dei genitori presenti – ma le mamme non possono solo essere comparse della nostra infanzia e adesso è molto più difficile al contrario di quanto possa sembrare: fidati oggi a lasciare un bambino affacciato alla finestra che ti aspetta mentre fai la spesa! Questo significava una società completamente diversa, a tratti rurale, ma anche senza malessere, dove il bambino era protetto da una comunità solidale, dove tutti conoscevano tutti, dove si vedevano più bambini a spasso tenuti per mano dalla madre.

Nel caso di questo testo, contrariamente a quanto mi ero ripromesso, sento di dover essere didascalico, ma un po’ per ricordare a me stesso la genesi del brano.

La citazione della prima stanza è tratta dall’Odissea (libro IX), è uguale alla traduzione di Ippolito Pindemonte. Naturalmente è un omaggio, ma è funzionale al mio testo. In Omero il contesto è differente. Ulisse sta riferendo ad Alcinoo, padre di Nausicaa e re dei Feaci, ospitali abitanti dell’isola di Scheria (Corfù), delle sue vicissitudini dopo la guerra contro Troia. Spiega che anche per un navigatore come lui dopo un po’ ciò che più si desidera è la propria casa, la propria terra, che è come la madre per un bimbo che brama esser preso per mano.

Dall’essere nutrice e maggiore oggetto d’affetto per un bimbo, per una madre l’accusa e la calunnia sono sempre dietro l’angolo, come quella di non nutrire i figli. Pertanto la pur meticolosa madre di Achille – la cui figura è massimamente descritta nell’Iliade -, Teti, che rende invulnerabile il figlio immergendolo nello Stige (Achilleide di Stazio), senza bagnarne il tallone, patirà e sarà derisa per questo, benché per tutto il poema omerico si dedichi alla salvezza del figlio.

Le madri sono citate spesso e più volentieri le rare volte che sbagliano o quando fanno gesti talmente eroici che non se ne può tacere. Eppure degli sbagli sono a volte colpevoli gli stessi figli dei quali si ha pietà più che di esse.

La citazione questa volta è tratta da Metamorfosi di Ovidio, il riferimento è al XIII libro, dove si racconta il mito delle sorelle Metioche e Menippe, figlie di Orione, che si sacrificano per salvare Tebe dalla carestia e nel loro rogo funebre procreano la loro discendenza generando i Coroni. Storia simile ad altre e in particolare a quella di Coronide e Ascelpio (libro II).

Le madri, ieri come oggi, vengono immolate da un mondo assassino, come per il dramma dell’aborto, su cui per anni si sono sparsi inchiostri, tanto a morire sono loro, come accadde a Ilia (Rhea Silvia) uccisa per aver generato dei figli (Romolo e Remo). Ilia è citata nel libro VI dell’Eneide, ma la sua storia è raccontata nel dettaglio nei libri Ab Urbe condita I di Tito Livio e in Annales di Ennio e Fabio Pittore.

L’uso anche dei miei versi certo è una vanità, che tuttavia si consuma tra me e me stesso, se non altro dimostra che un pensiero alle madri talvolta lo avevo fatto. Nell’ordine i versi sono tratti da Infanzia (“…affacciato alla finestra attendo mia madre), Mihi non licet iudicare (“Si diceva che la madre/ non gli desse da mangiare”), Il manifesto (“Kyrie eleison”), Politique d’abort (“L’aborto è un grave dramma umano/ subito, suo malgrado, dalla madre”).

Tutti i brani sono pubblicati nella mia antologia “sovVERSIvi” (faccio un po’ di pubblicità, ma solo per ricordare che c’è un’edizione economica ordinabile su ilmiolibro.it – codice 1200348 – euro 13,50. I brani ovviamente sono tutti presenti anche su questo blog).

Concludendo, la struttura del brano è composta dal verso “madre” che si ripete in forma anaforica nelle quartine, da una sorta di introduzione ai versi successivi, che sono un mio verso e uno di un’opera classica.

p.s.: L’uso di “parersi”, al verso 7, è una licenza poeetica per “parrebbe”, “sembrerebbe”, per evidenti ragioni di rima. Tuttavia questa forma pronominale è attestata anche in Dante (Inferno, canto XXIX, verso 42 “potien parersi alla veduta nostra”), sebbene con il significato compatibile di “apparire”.

nei nostri versi..

24 Nei nostri versi non ci son le madri (98 – XXIII.XXXIX – 23.5 a) a 20/29.9.2021