STILLE DI MEMORIA

Rosalba
6 novembre

In sardo esiste la parola precisa, sùrtidu… ciascuna frazione di sonno fino a ogni risveglio (non mi proponete pisolino, pennichella, sonnellino, che hanno differente valore semantico e al massimo rappresentano solo una parte del significato). Su sùrtidu è un’unità di misura ancestrale, quando è unico vuol dire che si è ben dormito, ma più comunemente se ne hanno lunghi e brevi… poi ci sono quelli del mattino, intorpidenti, e l’ultimo è avvezzo al sogno, al sogno che si ricorda.

Trattiamo del sogno dell’ultimo sùrtidu di un mattino di fine primavera; dittato, magari non da Minerva e Apollo, ma tant’è; peraltro io non sono Dante… Se non fu la prima volta, fu certamente la prima percezione ed è accaduto di nuovo, alcune altre… Un fenomeno delicato, piacevole… E come non cercar di trarre insegnamento dal poeta? “I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando”…

Brutto ferire quest’atmosfera con annotazioni tecniche, ma devo dire, per quanto possa essere critico di me stesso, che considero Stille di memoria un preciso punto di svolta della mia maniera (“Voi ch’avete mutata la mainera/ de li piagenti ditti de l’amore”…) di versificare.

Dopo i primi due titoli considerati, a un tratto, troppo didascalici, ho scelto quello classico, dal primo verso. Eppure, come si può constatare, non vi è alcun problema a mostrare anche gli altri, forse allo stato delle cose, l’unico caso in cui possa permettermelo. Non so se un giorno riuscirò a scriverne e dare un’idea di chi sia Rosalba per me, non so neppure se possa farlo il nostro lunghissimo epistolario ancora in atto. Al momento posso dire di non avere mai più incontrato una donna come lei e, inconsapevole, non so neppure se altri ne abbiano trovato una, forse un’idea… Al momento, nell’economia di questi “ritorni” di huxleiana memoria, proverò a buttar giù qualcosa.

Quando la conobbi aveva da poco compiuto quindici anni, io ne avevo cinque di più, eppure la sua personalità naturale, non esibita, mi sommerse dolcemente. La pensavamo allo stesso modo. Sapete quando delle tue stesse idee a malapena nel mondo potresti contarne tanti quanti le dita delle mani? Ebbene una l’avevo trovata. Mi cercò lei per qualche settimana, senza arrendersi, dopo un mio volantinaggio particolare con Antonella nel suo liceo, un giorno che era assente.

Così cominciammo a frequentarci e a scriverci, fu lei a chiederlo, era molto più intraprendente di me, piuttosto intimidito di fronte a questa ragazza vivace, bella e dagli occhi chiari: il sogno era già lì. Quello era un periodo piuttosto pieno per entrambi, ci si vedeva in base a rigidi appuntamenti, agli impegni e ai cambiamenti che la vita poneva, uno dei quali fu, a un certo punto, il cambiamento di città da parte mia e parecchi mesi in cui non fu possibile vederci. Quello che nel frattempo era nato o stava nascendo tra noi sarebbe banale definirlo secondo terminologie ordinarie o abusate, la scelta dei termini in questo caso deve essere accorta.

E’ necessario ora fare un bel salto nel tempo, lasciandoci alle spalle il complesso romanzo joyciano. Siamo ormai talmente abituati a internet e ai telefonini cellulari, che ci è perfino difficile ricordare come si comunicava quando tutto ciò non esisteva, a parte il telefono e la posta; in casi estremi si ricorreva agli espedienti più particolari e il bello è che funzionavano.

Era passato oltre un anno e mezzo dal nostro primo appuntamento, era corso tanto tra noi, incontri, fiumi di parole. Quasi due anni di fatti, di politica, di avvenimenti personali… ed era il sei novembre, a Roma, in via Giulia, davanti al suo liceo, intorno alle dodici; il portone e i dintorni più prossimi ad esso erano pieni di studenti. Lei era dentro, non ricordo se ci fosse assemblea o al cambio d’ora; secondo il mio modo sfacciato alla bisogna, chiesi a una ragazza se la conosceva e se poteva informarla in qualche modo che io stavo sotto… Non dovetti attendere tanto e mi apparve, manco fosse un miracolo, il mio sorriso attonito al centro della via… Lei sorridente, mi venne incontro e senza manco dire una parola mi baciò in bocca. Un bacio dolcissimo, indimenticabile, ancora oggi nitido nella mia mente, il nostro primo bacio.

Talmente fu indimenticabile che l’ho rivissuto come reale nell’ultimo sùrtidu di un mattino di giugno, oltre venti anni dopo; una sensazione indescrivibile, come gocce di memoria che si fanno nitide tra fermi immagine e movimento, in una foschia in bianco e nero, percepita dalla mente a colori. Lei appare sul portale spalancato e ci offriamo questo bacio di una dolcezza memorabile, là, al centro della strada, popolata di studenti.

Cos’altro chiedere? E’ qualcosa che ancora mi nutre d’amore, è davvero l’Eden. Sono passato ancora tante volte di là ed è straordinario notare in quello stesso punto l’ideale monumento che ci vede uniti.

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54 Stille di memoria (81 – XVII.XXIX – 10.6 a)  a 30.03.2024

PARADISO (libertà)

Nella scrittura può capitare di parlare in tempi diversi degli stessi precisi fatti – nella fattispecie anche a distanza di anni -, evidentemente in termini differenti e che autore e lettore valuteranno per proprio conto. Argomento e protagonisti sono gli stessi del post precedente (contemporaneo a questo) e dunque di quelli là segnalati, cui rimando senza bisogno di ripetere alcunché.

La temporalità della scrittura rispetto alla pubblicazione è stravolta: sotto l’aspetto intimo ne scrissi dopo, ma in sede di rivisitazione prima; pertanto ora, nei “canti per Eva”, accade l’opposto: ne parlo dopo, mentre in origine ne scrissi prima. Non so cosa ciò possa cambiare, forse l’approccio, il punto di vista, tra il parlare di una donna, di una coppia e il parlare di se stessi nel medesimo ambito.

Capisco che sia un esordio intricato, ma è soprattutto un’annotazione per me stesso, un promemoria che mi permetta una comprensione tecnica della scrittura.

I nostri sono sempre Ginevra e Graham, come li ho chiamati in “Un delirio” e seguente. Il dialogo è diretto, didascalico, cronachistico, diaristico, a futura memoria… E’ lui che parla a lei, fa rivelazioni, racconta le sue sensazioni cercando di cogliere le sue reazioni, di farle ricordare quei momenti semplici che non armerebbero di penna nessuno scrittore, nessun poeta, non è chiaro se per troppa oggettiva banalità o per una soggettività irraggiungibile.

I “Momenti di un amore” in questo contesto sono la sintesi dei fondamenti della vicenda, mentre ora si divide in episodi, e siamo all’apice della passione. Difficile riportare su carta quelle sensazioni, quei sentimenti, o per dirla col Poeta “Il mio veder fu maggio che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio” (Comedia, Paradiso XXXIII, 55-57). Il titolo non è dunque casuale. Tanto è vera la citazione che, questo brano, salvo qualche accorgimento linguistico, è fedele alla prima stesura, quasi per religioso rispetto. Mi rendo conto di aver fatto ampiamente un commento che avrei dovuto evitare in questo genere di rilettura in prosa, ma tant’è.

Scritto in epoca di progressive music, il brano è concepito come una sorta di suite, dove la “musica” sono le parole stesse, vista la vastità (c’è ancora una seconda parte e il corpus contiene anche Inferno – alienazione transitoria e Purgatory – strumpet – di cui parleremo a tempo debito).

E’ risaputo che è più facile scrivere del dolore, che della felicità; del brutto più che del bello; del negativo piuttosto che del positivo…”: che ci piaccia più la descrizione della sofferenza, che della felicità?

Ginevra sostava da tempo nei suoi pensieri, ne fantasticava l’incontro, specie ora che erano entrambi in piena adolescenza; tuttavia per lui erano fantasie irrealizzabili, lei era stata sempre sfuggente, di approccio complicato, ma allora erano poco più che bambini. Ora, il fatto che lei volesse stargli palesemente vicino era spiazzante, troppo emozionante, parlavano, si divertivano, tendevano a stare soli, per cui anche gli amici diventavano un peso, specie quando per andare con loro dovevano separarsi, così non c’era festa che tenesse. Cercavano anche l’incontro mentale, il collegamento telepatico, finché la passione prevalse su tutto e non si staccarono quasi più prediligendo isolarsi; ciò per loro era il “paradiso”, il primo bacio e gli innumerevoli che seguirono nelle loro passeggiate solitarie in tutte le ore del giorno e della sera, in città e in campagna.

Quando Graham stava lontano da lei aveva i crampi allo stomaco, gli si bloccava la digestione, era inappetente, qualcosa di incredibile. Individuarono poi il loro “posto” dove accadevano le cose più fantasiose e ogni senso era coinvolto. Lui in particolare si avvaleva del tatto, che gli dava un piacere immenso e nuovo, mai sperimentato prima, almeno con quei risultati.

La giornata al mare fu il non plus ultra, paragonabile solo al primo bacio; insieme, soli, e lui che smaniava per appartarsi e finalmente così avvenne: tutto il pomeriggio in pineta ad amoreggiare in ogni modo lontano da sguardi indiscreti, due adolescenti che giocavano a fare i grandi, sorpresi di se stessi, ma determinati e insaziabili.

In una situazione la cui descrizione rende molto meno del vivere quei momenti, lui sentì il bisogno di chiedere di più, quasi fosse un obbligo, infatti era talmente sazio che non sarebbe andato oltre la richiesta; lei era controllata, conosceva il limite che non voleva superare, pose dei veti, benché fosse inutile: si erano praticamente sbranati per tutto il tempo e ne avevano i segni addosso, ne avevano ben donde di simulare normalità.

Chi gli stava vicino non risparmiò allusioni, tutto appariva chiaro e si cercò di allontanarli; qui si intravedevano i caratteri, lei che riusciva a simulare indifferenza e realismo, lui pieno d’angoscia e di paura di perderla.

Forse non avrebbero mai rinunciato a una giornata simile valutandone pure i rischi, tuttavia terminava il loro tempo di libertà assoluta e si ritrovarono sotto un più ferreo controllo dal quale potevano solo evadere.

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44 Paradiso (libertà) (18 – III – 18.9 a) a 30.5.2023

‘NDO CAZZO STA GEMONIO?

Su l’adrenalina fin da Gemonio
sulle orme vaghe dell’antica schiatta.
Lavinia, la dolce, pari a Beatrice,
mi conduce in un eden di verde,
un ambiente da fiaba, oneirikòs,
con eco di ruscello per musica.
Un cielo di nubi rassicuranti
osserva il mio cammino verso Azzio.
Il nostro popolo torna ancora qui
dopo un secolo e un’altra metà,
mi biasimate Tumas, Giuvananton?
Che emozione sostare nella chiesa
il cui suolo potreste aver calcato;
giri intensi tra le viuzze del borgo
scrutando angoli del paese antico
a voi noti o perfino posseduti.
Vecchie case sulla collina cinta
dall’altipiano, bosco e prato ovunque.
Quattro generazioni hanno taciuto,
é stato arduo aprire squarci di luce;
basta stare sotto lo stesso cielo
e respira’ l’istess aria valcuvian.

gemonio, adrenalina, lavinia, beatrice, eden, azzio, altopiano, varesotto, valcuvia, valceresio

Fin da bambino ho saputo che un ramo della mia famiglia non era sardo, ma proveniva dal continente. Quando capitava, se ne parlava sempre in modo vago, direi impreciso.
Molti anni fa approfondii le poche notizie che avevo e scoprii che quel ramo materno era varesotto. Ero stato nella zona solo tre anni prima, inconsapevole.
Cinque anni fa mi recai in Valcuvia deciso a saperne di più, non trovai nulla; idem lo scorso anno, benché diversi atti fossero piuttosto chiari, come ho potuto verificare ancora di recente. Il rapporto dei miei antenati con quella valle deve dunque ancora essere chiarito, forse un passaggio temporaneo…
Solo pochi giorni fa ho scoperto che il paese d’origine è un altro (o probabilmente sono più di uno), sempre nel varesotto, ma in una valle attigua, la Valceresio.
Ciò non sminuisce le emozioni provate in Valcuvia, che ho descritto per quanto possibile in questi endecasillabi sciolti, ma è solo la premessa per viverne delle altre.
Discorso a parte merita il titolo del brano. Mi è capitato di dare ad articoli titoli sibillini dal difficile accostamento al contenuto, non ricordo ciò sia avvenuto per dei versi.
Il titolo di questo brano è frutto di un aneddoto per me irresistibile, quanto apparentemente insignificante, che si è imposto nell’incertezza del titolo da dare.
Quando feci sapere a un’amica varesotta, premiata poetessa, che mi recavo in Valcuvia e citai Gemonio, stazione ferroviaria nord, lei chiese, non a me, “…’Ndo cazzo sta Gemonio?”
La situazione mi parve così paradossale, divertente e per tutta una serie di notazioni, anche politiche, geniale, che non potevo non valorizzarla.
(XXIV.XL – 7.9 Azzio)

STILLE DI MEMORIA

Stille di memoria avanzano
alternando fotogrammi e movie
in un tenue alone black and white
nell’incerto sogno mattutino

Fluttuante tra nebbie celtiche
rivarchi il portale del Virgilio
…ho in pasto tua piuma di miele
immobile al centro di via Giulia

…E dopo questo non c’è più nulla
Se passassi di là mi vedresti ancora
oramai eterna stele che ribrama l’Eden

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In sardo esiste la parola precisa: sùrtidu… ciascuna frazione di sonno fino ad ogni risveglio (non mi proponete pisolino, pennichella, sonnellino, che hanno differente valore semantico e al massimo rappresentano solo una parte del significato). Su sùrtidu è un’unità di misura ancestrale, quando è unico vuol dire che si è ben dormito, ma più comunemente se ne hanno lunghi e brevi… poi ci sono quelli del mattino, intorpidenti, e l’ultimo è avvezzo al sogno, al sogno che si ricorda.
Così sono nati questi versi, dall’ultimo sùrtidu di un mattino di fine primavera; dittati, magari non da Minerva e Apollo, ma tant’è; peraltro io non sono Dante… Fu la prima volta, perchè è accaduto di nuovo, alcune altre… Un fenomeno delicato, piacevole… E come non cercar di trarre insegnamento dal poeta? “I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando…”.
Brutto ferire quest’atmosfera con annotazioni tecniche, ma devo dire, per quanto possa essere critico di me stesso, che considero questo brano un preciso punto di svolta della mia maniera (“Voi ch’avete mutata la mainera/ de li piagenti ditti de l’amore…) di versificare.
(XVII.XXIX-10.6 A)

PARADISO (libertà)

Sappi che ho sempre atteso,

con ansia, il tuo arrivo.
Ricordando gli anni trascorsi,
non credevo al tuo esordio:
volevi stare insieme a me,
fuori, a parlare.
Contro voglia andai alla festa,
ma la mia mente restò con te;
al rientro baciai i tuoi “bei sogni”.
Gli amici capirono i nostri desideri,
ci ritrovammo soli;
di sera il preludio, poi fastidi,
quindi insieme in “paradiso”.
Star lontano da te era bere un veleno.
Nei pressi dei campi di pero
fuggivi la mia passione;
giù, nel ruscello,
non percepivo i tuoi pensieri.
Nascosti da un vallo di terra,
ci scaldammo le labbra
e un rumore ci bloccò.
Con le spalle al paese
i nostri corpi in perfetta fusione:
i cuori una caldaia rovente,
le bocche fumaioli tappati;
dopo il ristoro chinavi il capo:
non c’era niente di male!
il mio “cammino” tanto impetuoso
stavi su di me e ti dissetavo,
carezzavo la tua pelle morbida.
Quel mattino insieme al mare
c’era voglia di appartarci;
le mie “doti” metapsichiche
vidi sfumare in compagnia.
Stesi al sole giocavamo con i corpi,
le nostre membra chiedevano amore:
un “paradiso” poteva sfamarci.
Stesi ai piedi di un pino,
mimetizzati nell’abbraccio,
ti sfioravo con dolce furore.
Non c’è da chiedere perdono
per peccati di lussuria:
del celestiale era in noi!
la tua sincerità era palpabile,
non sognavo e non dormivo,
volevo solo amare.
Ti lasciai il mio segno.
Mutasti in bimba pudìca,
quando troppo pretesi:
sfuggivi al pulcino
rinato serpente,
col quale scambiavi
acido straziante e bollente.
Le rovine dei nostri templi:
labbra e corpi infuocati,
in un mondo che capì.
Con viva realtà, al ritorno,
simulammo normalità.
Subisti precise allusioni,
un tuo annuncio mi preoccupò:
il mio cuore pieno di angoscia
avrebbe potuto già perderti allora,
con i miei segni sul corpo e nell’anima.

18 paradiso1

Il brano descrive l’apice della passione introdotta nel brano precedente. Difficile riportare su carta quelle sensazioni, quei sentimenti; per dirla col Poeta “il mio veder fu maggio che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio” (Comedia, Paradiso XXXIII, 55-57). Il titolo non è dunque casuale. Tanto è vera la citazione che, questo brano, salvo qualche opportuna correzione linguistica, è fedele all’originale, quasi per un religioso rispetto. E’ stato scritto poco più di un mese dopo il precedente, dunque sempre a sedici anni. Mi avvicinavo decisamente in quel periodo alla progressive music, per cui il brano è stato concepito come una sorta di suite, dove la “musica” sono le parole stesse, vista la vastità (c’è ancora una seconda parte e del corpus fanno parte anche Inferno – alienazione transitoria e Purgatory – strumpet, già pubblicati).
Mi sento di confermare (è risaputo) che è più facile scrivere del dolore, che della felicità; del brutto più che del bello; del negativo piuttosto che del positivo… Ovviamente c’è qualche grande eccezione: Dante, ad esempio, ha scritto un magnifico Paradiso; non so se i dotti dovessero attendere un Benigni per capirlo, considerato che la terza cantica della Comedia è stata sempre ritenuta la minore e così non è. “Ci sta” invece che ci piaccia di più la descrizione della sofferenza, anziché della felicità.
Quanto al mio lavoro, visto che descrive (poche settimane dopo l’evento) un momento straordinario che ho vissuto, può essere banale quanto volete, ma in questo caso specifico lo guardo come qualcosa da venerare.

(III – 18.9 A)

Music:
MI- … LA- … MI-
RE … LA- … RE
RE … MI- … LA
RE RE- LA- MI- (e si ripete…)
(III – 13.8 A)