DEPENDI POETARE IN COSTA REI

Dovendo versificare a Costa Rei

Sovente mi prende il vezzo di scrivere in particolari località di vacanza, non so, sarà per il fascino di una data accostata a un luogo, o per una sorta di improbabile influsso che si pretende di trarne, o solamente per un gioco, per vedere alla fine dove si è scritto meno peggio.

Non sempre accade in realtà, spesso per mancanza di tempo, a volte il viaggio è talmente intenso che non c’è neppure il tempo per pensarci, altre capita invece di essere colti dall’ispirazione in treno, in nave, e allora salterebbe anche la precisa località di scrittura. In questi casi opto per il luogo ove ho scritto prevalentemente, o quello più vicino, o ancora il tragitto intero. Una complicazione!

Quando capita di scrivere senza ispirazione, semplicemente per voler scrivere, l’unico sistema accettabile è raccontare cosa sta accadendo in quel momento. Nel caso si tratti di versi, qualsiasi sproloquio ne venga fuori, potrà essere valorizzato dalla metrica, ad esempio da un sonetto.

Durante una mia vacanza a Costa Rei (rei dovrebbe stare per re in lingua sarda, ma allora dovrebbe pronunciarsi con la e aperta, mentre è comunemente pronunciata con la e chiusa, per cui sorge il dubbio di una contaminazione fonetica o in alternativa di un altro significato, magari di una contrazione per nasalizzazione) dissi ai bambini che avrei voluto dedicare loro dei versi scherzosi, dunque che si avvicinassero per darmi degli spunti. Ottenni tre reazioni diverse: la più grande mi disse di lasciarla in pace, senza mezzi termini; il piccolo un po’ scettico non voleva che il mio brano parlasse di lui; mi diede retta solo la seconda, l’artista di casa…

Non ne venne fuori certo un’opera d’arte, solo un componimento didascalico che spiegava esattamente quello che qui sto esponendo con una certa ironia, dicendo anche quali erano state le reazioni e via dicendo, non tralasciando alcune loro caratteristiche passibili di benevola presa in giro.

L’episodio ebbe delle code e discussioni, perché dell’una avevo detto questo e dell’altro quello, insomma quel brano non era affatto giusto, vi si facevano le “parti”… e presumidu as at essiri tui (presuntuoso sarai tu!). Grande polemica, con sottigliezze, perché poi il brano è stato pubblicato in due antologie.

Ovviamente tutta la vicenda si sviluppò con grande ironia fanciullesca, del risentimento appena accennato, ma abbastanza perché io mi sia dovuto servire di nomi fittizi.

Il brano è semplicemente uno scherzo. Un’amica leggendolo ci cercava un senso e me lo chiese, con imbarazzo dovetti appunto rispondere che non ne aveva, che era un puro gioco.

Posso fare una riflessione non troppo impegnativa, ma da tenere in considerazione. Parto da un concetto molto serio che è 1 + 1 = 1 (tutti diversi, tutti uguali). Quando si parla di uguaglianza o anche di comunismo (parola che a molti non piace, ma che è bellissima [come ha avuto occasione di affermare anche il papa]: significa mettere in comune, soprattutto tra chi ha e chi ha bisogno e al giorno d’oggi sarebbe auspicabile, tra chi ha troppo anche di superfluo e chi non ha niente), occorre tenere a mente che essere uguali nei diritti e nei doveri sociali, non significa che si debba essere uguali anche nel privato, nel personale, nella sensibilità, ognuno deve essere ed è se stesso.

Per questo quando facciamo una burla che a noi sembra bellissima, non dimentichiamo che siamo tutti diversi: molti possono fraintendere una battuta, non apprezzare, reagire con freddezza. Beh, non è il caso di prendersela, sicuramente rideranno per un’altra più fortunata. L’importante è che nessuno ne faccia un casus belli e talvolta accade: la famosa scintilla o battito d’ali…

Non è certo il caso che ho raccontato sopra, il quale non è adatto a conclusioni troppo serie, ma visto che ci siamo, diciamolo. Nel dire le cose dobbiamo prestare attenzione alla sensibilità altrui, allo stesso modo chi ci ascolta deve cercare di non essere mai troppo permaloso. Tutti devono valutare se una cosa è detta o meno in buona fede ed evitare inutili tensioni.

Questo nei buoni rapporti sociali… Perché quando c’è la mala fede, il politicamente scorretto, la palese menzogna demagogica, l’odio per l’odio, allora l’indignazione è sacrosanta e giusta.

 95 isseel

20 Dependi poetare in Costa Rei (91 – 20s – XXI.XXXIV – 30.8 murav/cr) a 30.05.2021

SU CONTU DE AIÀIA LIVETINA

Il racconto di nonna Livettina

Ho già avuto occasione di rammaricarmi per il fatto di non aver raccolto delle testimonianze del passato quando ciò era ben più possibile di ora, i testimoni infatti non sono eterni e non tutti sono volontari come la grande Liliana Segre.

Non mi riferisco peraltro a fatti così drammatici, ma a semplici ricordi popolari e di famiglia, ritengo che anch’essi abbiano la loro importanza.

Così io, che amo cantare e contare i nonni, non né ho raccolto abbastanza i ricordi, o perché ragazzino, o perché attento ad altro, o anche per l’inconsapevolezza dell’inesorabilità del tempo. Per queste ragioni ciò che tuttavia ho raccolto acquisisce un valore inestimabile.

Ricordo che nell’adolescenza avanzata riflettevo tra me e me sulla fortuna di avere ancora tutti e quattro i nonni. Tre di loro li ebbi ancora per molti anni e in ultimo mi restò la sola nonna Emilia, che se ne andò quando ero già due volte padre.

Nonna è stata bene fino in fondo, ci lasciò a 88 anni, ma solo fino a qualche mese prima continuava ad andare con le amiche in campagna per raccogliere asparagi, crescione, cardi o carciofini selvatici e quant’altro offriva liberamente la natura rurale.

Quando seppe che avevo registrato nonna Grazia (la nonna materna mi recitò Sas paraulas bonas [Le parole buone] una novena della tradizione popolare orale), si risentì dicendomi che con lei non lo avevo fatto, per cui promisi di provvedere.

In queste visite periodiche usavamo parlare del passato, degli avi e di altre storie, ma non avevo mai progettato una raccolta sistematica di notizie, andavo avanti in maniera casuale.

In quegli anni andavo ricostruendo la mia genealogia a tutto campo (cioè di tutti gli avi in linea diretta, sia maschile che femminile). Durante una di queste sedute in un ufficio demografico dei dintorni, mi incuriosì molto il fatto che l’impiegata mostrasse di sapere di mia bisnonna, cioè della madre di Emilia; mi disse che gliene parlava la madre e che la storia era risaputa in tutto il circondario. Ora non ricordo se nonna me ne avesse già fatto cenno, mi ripromisi di parlargliene e così appresi più nei dettagli su contu de aiàia Livetina e lo registrai.

Livettina Cabras era nata a Simala, non era molto alta, ma era carina e aveva gli occhi chiari. All’età di 26 anni sposò Santino, suo coetaneo di Ollasta, paese vicino e là si trasferì. Ebbe mia nonna a 32 anni e solo un altro figlio. Visse una vita normalissima, entrambi i figli si sposarono e misero su famiglia. Rimase vedova a 61 anni e visse fino a 78.

Mio bisnonno proveniva da una famiglia contadina agiata, ma il padre perse tutti i beni e lui dovette arrangiarsi a fare il bracciante e a un certo punto iniziò a fare il guardiano dei campi (su castiadori), ovvero sorvegliava orti, vigneti e altre proprietà affinché non vi avvenissero furti o danneggiamenti. Il suo “ufficio” era una sorta di capanna sopra una collina da dove dominava tutti i terreni al confine tra Ollasta e Gonnosnò. Questo genere di mestiere molto diffuso in Sardegna (immagino anche altrove) è scomparso solo intorno agli anni Settanta.

Parliamo dei primi anni del secolo scorso. La vita, specie quella rurale, non doveva essere particolarmente movimentata. Probabilmente il massimo dell’attività sociale si svolgeva nelle chiese o nelle osterie, a parte le ricorrenze, le sagre paesane e le riunioni di famiglia.

Le mogli, comunemente, stavano in casa, socializzavano con le vicine, si incontravano nelle rispettive abitazioni.

Un pomeriggio Livettina era a colloquio con la signora Teresa, sua vicina molto più grande di lei. A un certo punto del dialogo, che ci sfugge, l’ospite, suppongo in tono scherzoso disse a mia bisnonna: “Livetina, candu morru bengiu e ti fatzu UHHH!”. In sostanza “Quando morirò ti apparirò e ti farò spaventare”. La nonna rispose “Su mabagràbiu no at a fai!”. Una formula che si può rendere nel senso “Non farà mica una cosa del genere?” (mabagràbiu sta per fantasma), ma che si pronuncia quasi per esorcizzare l’annuncio di un sinistro comportamento. La cosa finì lì, evidentemente era palese lo scherzo, benché sgradevole.

Passarono anni e il fatto, irrilevante, fu evidentemente dimenticato, o forse persisteva nell’inconscio della nonna. La signora Teresa era già morta da tempo e anche Livettina era ormai in età adulta avanzata, si era nel tempo in cui il marito Santino faceva il guardiano e lei gli portava il pranzo al posto di vedetta (càstiu).

Un giorno in particolare, giunta al bivio per Gonnosnò, una voce la fece trasalire. Lei era tranquilla, soprappensiero.

A su càstiu ses andendi Livetina” (stai andando alla vedetta?)

Sissi, tzia Teresa…” rispose, e come in preda a un incantesimo, e pensò «…Anca adessi andendi totu cuncodrada!» (chissà dove sta andando tutta vestita a festa!).

Proseguì macchinalmente fino al posto di guardia e là come se si fosse improvvisamente svegliata esclamò:

Ti arrori! Ma tzia Teresa TruduM’est atobiada ingunis in jossu, m’at saludadu, apustis est sighida a andai…” (Oddio! Ma signora Teresa Trudu… L’ho incontrata laggiù, mi ha salutato poi ha proseguito per la sua strada…)

Ma toca! T’as a isbagliai… De una diri est morta!” (Ma và! Ti sbagli di certo, è morta da un sacco di tempo!), le rispose il marito.

La storia di questa apparizione si diffuse per tutto il territorio e ancora oggi ve ne è memoria trasmessa tra generazioni.

Non vi furono gravissime conseguenze, la bisnonna sopravvisse una ventina d’anni all’episodio, forse anche più, tuttavia il fatto la segnò profondamente e sosteneva di provare dei brividi di freddo, come una sorta di paura, all’ora in cui avvenne la visione. Fu per lei molto impressionante anche perché non aveva assolutamente in mente quella donna.

Insomma, era stato l’UHHH dimenticato.

61 su contu

19 Su contu de aiàia Livetina (61 – 3s – XII.XXI – 14.03 a) a 27.04.2021

‘TENDI ITA T’ATZORODDU

Senti cosa elucubro

L’errore, per quanto veniale, di uno che scrive è essere condizionato dal pensiero di un altro che leggerà quello scritto; non è un teorema, ma sul tema si sono esercitati fior di scrittori. Qui penso che il titolo stesso tradisca questo pensiero…

Elucubrare rivolto a se stessi, è sminuire qualcosa che si pensa non sia elevatissimo, non tanto nella forma, piuttosto nel contenuto.

A distanza di tempo la propria scrittura, se ha un poco di valore, diviene accettabile, non sempre ovviamente, c’è anche quella che deve essere resa tale, o quasi, semplicemente per una ragione documentale.

Il tema dei nonni, dell’amore per i nonni (termine con il quale comprendo tutti gli avi, almeno quelli in linea diretta), l’ho ampiamente sdoganato, credo di aver detto molto in proposito, non certo tutto.

Abbiamo visto dei brani corali e altri dedicati a un solo avo o a pochi. Il brano corale, specie se primitivo, o per meglio dire iniziale, non può prescindere dalla stima per la propria schiatta, è un rendere omaggio alla progenie della quale la storia non parla; essa tace perché non erano nobili, padroni, potenti, “eroi” o saggi studiosi… Si parla ovviamente della storia événementielle (Annales), quella che si studiava sui libri di testo, almeno fino a un recente passato, che privilegiava le vicende  dei capi di stato, dei Re e delle loro guerre, ma quella – come giustamente scriveva Tolstoj -, non è la storia dell’umanità, è la storia – forse neanche, perché contraffatta a seconda di chi la racconta – di quelle persone, al più di quelle poche famiglie: la storia di pochi contro quella della moltitudine, molto più complessa e quasi impossibile da raccontare nella sua totalità; così ci si ripara nella convenzione, nell’utilità di alcuni potenti, anche se sta emergendo un nuovo modo di scrivere la storia, che è quello delle società, delle genti, delle masse, della vita quotidiana, del popolo e delle sue tradizioni.

Allora, soprattutto tenendo a mente i falsi eroi proposti dalla storia ufficiale scritta a uso e consumo degli stati, del regime, non è mai una battuta, ma è verità, che io dica a mio nonno Giuseppe, per me sei più bello tu di Garibaldi, e parlo di una bellezza spirituale, totale, non di mera estetica.

I nonni possono essere, meglio di certi libri di testo, i testimoni della vera storia, anche orale, da tramandare, finché qualcuno la scriverà.

Così nonna Emilia mi raccontava dei suoi genitori, dei nonni e bisnonni, specie del ramo femminile di Rosa, Clara e Colomba e della sua trisavola Emilia, di cui ha ereditato il nome; della nonna Rita, che lasciò la vita a trentun anni dopo il parto e si sposò a ventitrè anni, quando per portare la sua dote si spostarono sette carri; suo marito Efisio, che le sopravvisse venticinque anni, fu vinto dallo sconforto per il fallimento patrimoniale e degli affetti.

Sono dei quadri ricostruiti tra racconto e ricerca di avi non conosciuti personalmente, ma la cui vicenda, in questo caso drammatica, intristisce, perché te li figuri e te ne dispiaci.

Come per altri versi ha la sua drammaticità la storia di mio bisnonno Paolo, mezzo varesotto e mezzo sardo, che emigrò in Argentina lasciando la moglie con diversi bambini piccoli e del quale dopo qualche anno non si seppe più nulla di sicuro, solo voci e diverse leggende metropolitane: si rifece un’altra famiglia in Argentina, fu ucciso a Genova, tornò dai parenti varesotti… La sua vicenda fu comunque determinante per il divenire familiare.

La nonna Grazietta, dolcissima e buona come il suo nome, anch’essa raccontava – è evidentemente una peculiarità femminile, i nonni erano più riservati – del padre, impegnatissimo nella confraternita del Rosario, marito della giovane Bellanna Piga, e del padre di lui Giovanni, curatore e barbiere. Nella Sardegna arcaica, la carenza di medici, costringeva solitamente i barbieri a fungere da dispensatori di rimedi per la salute e la lingua sarda rende esemplarmente tale attività con il termine “majgu”, che tuttavia rispetto al similare mago, ha un campo semantico tanto più vasto di quello che prevede una bacchetta magica, un cono stellato in capo e un caftano.

60 'tendi

18 ‘Tendi ita t’atzoroddu (60 – 2s – XII.XXI – 13.03 a) a 31.03.2021

PO AIÀIA BATTISTINA

Per nonna Battistina

Trascende certo le mie convinzioni sulla lingua sarda – che considero, come tanti altri compagni e compagne che portano avanti la battaglia per il bilinguismo in Sardegna, una lingua dell’identità, tuttavia lingua del mondo intero, lingua per tutto e per tutti, esattamente come ogni altra – il fatto che mi sia cimentato nella mia antologia “sovVERSIvi” a trattare in limba sarda soprattutto il tema dei nonni, degli avi; dunque lungi da me l’idea che la mia lingua madre si possa ridurre a trattare solo argomenti atavici e infatti ho scritto in sardo anche di altri temi. Eppure scrivere in sardo di questo importante argomento è un plusvalore, lo valorizza come esso merita, perché il mondo ancestrale è poesia per eccellenza, e la ricchezza del sardo sia sotto il profilo semantico e, aggiungerei, semiotico, è l’ideale per esprimere certi concetti.

L’uso di altre lingue, come in questo caso, ha un’altra ragione: la necessità di rivolgersi a una platea più ampia, come accade in altri casi con l’uso dell’inglese, ma è anche vero che leggere uno scritto nella sua lingua originale ne arricchisce il senso e la godibilità: potessimo leggere Dostoevskij e Tolstoj in russo!

Ognuno di noi fa parte della storia dell’umanità secondo la Nouvelle Histoire espressa dalla École des Annales, gruppo di storici francesi del XX secolo; la storia, come ama definirla Francesco Casula, “dalla cantina al solaio”.

La mia trisavola Battistina Garau è pertanto un personaggio storico, come tutti. Nacque ad Ales nel 1836 da Michele, sarto, anche lui alerese, come la propria moglie Nicolina Minai. Visse l’infanzia in loc. Funtanedda (Is Floris). Sposò Giovanni Melis, barbiere e guaritore (majgu, come riportano anche gli atti dello stato civile), all’età di 29 anni ebbe il figlio Raimondo (mio bisnonno), visse l’età adulta in via Santa Maria, il quartiere antico limitrofo, rimase vedova all’età di 46 anni e morì il 12 settembre 1891 a soli 55 anni.

Lo stesso anno, il 22 gennaio, era nato ad Ales Antonio Gramsci. Non aveva compiuto ancora l’ottavo mese quando scomparve la nonna.

Raimondo aveva 26 anni, nella casa di làdiri (terra cruda) piangeva la madre e il suo lamento non ne era attutito, invece l’erba di Turatzu – la località che prende il nome dal menhir a forma di pannocchia di granoturco – alleviava la fame delle pecore e delle capre di Raffaele Pistis, abitante dello stesso quartiere di Santa Maria.

Mentre si consumava questo dramma familiare, il piccolo Antonio Gramsci dormiva, inconsapevole di queste pene, ma anche di eventuali piaceri, che si consumavano accanto a lui.

Peraltro anche Raimondo e Raffaele – destinati a una discendenza comune – non avrebbero certo potuto immaginare che quel piccolo bimbo avrebbe potuto avere un destino così importante e drammatico, benché avesse in qualche modo inizio dai misteri della vita che in qualche modo si consumavano anche in quelle ore.

Nonna Grazia mi parlò alcune volte dei suoi nonni, di nonna Battistina e di questo nonno particolare, “mago”, suo consorte, ma anche di suo padre Raimondo, cunfradi o cunfrara (appartenente alla confraternita del Rosario), del quale in quelle vesti conservo un’immagine.

Egli sopravvisse a Gramsci sette anni, ma di questo importante concittadino antifascista probabilmente non si sapeva ancora niente, il regime sapeva come oscurare quanto non gli era gradito.

Lo stesso vale per il mio bisnonno Raffaele, contadino e pastore, che tuttavia morì cinque anni dopo che Gramsci contribuì da protagonista a fondare il Partito Comunista a Livorno, lo stesso anno che Antonio fu arrestato e chiuso nel famigerato carcere di Turi in Puglia.

Difficile ora, hic et nunc, ricostruire se e cosa si potesse sapere di Antonio Gramsci ad Ales, da dove peraltro si trasferì intorno al primo anno di età. Qualcuno che ebbe frequentazione con la sua famiglia sicuramente ne aveva memoria, ma fino alla Liberazione si sarà guardato bene dal parlarne in giro per paura di finire sotto la poco premurosa repressione del regime fascista.

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17 Po aiàia Battistina (71 – 13s – XIII.XXIV – 8.12 a) a 26.02.2021

BISAJUS

Bisnonni

Una delle emozioni più belle della vita è la meraviglia, meravigliarsi! Questo può accadere in infiniti modi, per un oggetto, un aspetto della natura o semplicemente per una sensazione.

Penso spesso agli antenati (ancestors), li ricordo costantemente tutti i giorni con affetto, anche quelli che non ho conosciuto, perfino quelli di cui non conosco l’esistenza, il nome; le mie ricerche non possono andare oltre la documentazione esistente, quella normalmente disponibile.

Capita allora di chiedersi quanti possono avere lo stesso tipo di fervore, non dico neppure come il mio, ma che un po’ si avvicini, dia un’idea e non mi limito ai nonni, perché qui la percentuale aumenterebbe in modo naturale.

Una persona che abbia questo genere di impulso affettivo ne tratterà, magari con un certo entusiasmo, in rapporto a chi si troverà di fronte; un padre ne parlerà ai propri figli con modalità differenti in rapporto alla loro età e si compiacerà dei riscontri positivi che riuscirà a ottenere.

Senza dubbio i nonni sono gli avi verso i quali un nipote potrà dare e ricevere affetto e dei quali potrà parlare ai figli, per i quali sono già bisnonni. Al giorno d’oggi è più facile conoscere tutti i nonni e anche qualche bisnonno/a. Volergli bene è naturale, siamo nell’ambito della normalità delle cose.

Come può nascere una meraviglia in questo contesto? Provo a considerarlo con un breve racconto.

Un ragazzo che diventa padre è investito da una variegata forma di emozioni, non starò a descriverle tutte, sia chi è papà o mamma, sia chi aspira a diventarlo, può già immaginare per averle vissute o per aver osservato quelle di altri.

Questo “non stare più nella pelle” comporta tutta una serie di comportamenti spontanei o anche meditati.

Il nostro papà amava spesso parlare alla propria figlioletta di circa tre anni dei propri nonni, bisnonni della bimba; gli piaceva che la piccola imparasse a distinguerli, vi si affezionasse, ne avesse qualche notizia e li vedesse in fotografia, giacché le era rimasta solo la bisnonna Emilia.

La bambina si appassionava a questi racconti, li sollecitava, non accettava di buon grado che finissero, poneva domande anche su minimi dettagli, li apprezzava più delle migliori fiabe, fino a che giunse ad inventarsi fatti della vita dei bisnonni come se ancora tutti fossero in vita, ovvero come se li avesse conosciuti tutti e avesse passato del tempo presso di loro.

Così capitava talvolta che con il loro ritratto in mano dicesse al papà: “Ti ricordi di quando nonno Giuseppe…” e lo stesso per Tomaso e Grazietta…

Quel “Ti ricordi…” era davvero una grande gioia, una sorprendente meraviglia. Era il concretizzarsi di un’aspirazione, l’osservazione diretta che l’allievo diventava maestro a soli tre anni.

Il seme aveva attecchito e si sarebbe esteso crescendo alla valorizzazione di tutti gli altri bis-bis… bisnonni, potendo ancora contare su tutti i nonni e due bisnonne.

Tornando al commento, fuori dal racconto, non so se possa sembrare un argomento in qualche modo fantastico, rispetto a una non felice realtà contingente. Non lo penso assolutamente, ritengo si tratti di una materia che riguarda la propria intimità, dalla quale pure si può trarre forza per affrontare momenti di disgregazione, o peggio, di depressione, nei quali il pensiero alla Famiglia vera, quella degli affetti, non quella sbandierata pretestuosamente per fini politico/elettorali, può aiutare a superare i momenti peggiori.

La Famiglia è calore, sicurezza, affetto, il famoso appiglio nella caduta dal baratro e tanto altro ancora; per questo ogni assenza che abbiamo registrato nel tempo, sebbene rientri nella realtà delle cose, è una ferita difficile o impossibile da rimarginare; un po’ ci aiuta la Memoria, il ricordo è una grande opportunità che abbiamo, sia per alleviare le intime malinconie, sia per combattere le inquietudini sociali, con la differenza che queste ultime prescindono dalla tangibilità delle cose.

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16 Bisajus (68 – 10s – XIII.XXIVf – 31.07 a) a 26.01.2021

PISTIS

Sull’identità potremmo dire tutto e il contrario di tutto, eppure è un concetto che ci riguarda, come persone, come parte di una famiglia, come complessità discendente da un’infinità di famiglie, come parte di una società, ma anche di una storia più o meno semplice, più o meno complessa, specie in tempi di globalizzazione sociale, non solo commerciale, tutti concetti che possono avere valore positivo, ma anche nettamente negativo e sono prevalentemente tali nella società in cui viviamo oggi, ma anche ieri e avantieri, giacché, salvo casi isolati e temporanei, non mi risulta che il mondo abbia mai avuto un’organizzazione di giusta ed equa solidarietà sociale, mentre sicuramente l’ha sempre avuta di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in un sistema di ingiustizia e disuguaglianza, che si chiamava e in molti casi si chiama ancora, monarchia, oligarchia, dittatura, colonialismo, imperialismo, capitalismo.

Le poche rivoluzioni avvenute in questi sistemi in pochi anni si sono ritrasformate negli apparati illiberali e illibertari per cui si erano verificate, lasciando solo la loro testimonianza storica primitiva, utile solamente per nuove rivoluzioni, per nuove utopie tuttavia da perseguire.

Capitalismo e regimi coercitivi hanno bisogno per esistere di un nemico, per cui sbandierano lo spauracchio di comunismi, socialismi, perfino democrazie reali, che non sono mai esistite, se non per lo spazio di pochi attimi, cioè fino a che i fautori della coercizione e dello sfruttamento non si infiltravano in esse, rendendole nuovamente dittature capitaliste oligarchiche sfruttatrici dei popoli e delle masse proletarie. Perché se esse compiendo una rivoluzione smettono di essere tali, pur innalzando il loro stato e benessere, si torna inevitabilmente all’antico regime dei privilegi e delle ingiustizie.

Seguendo questo filo non si finirebbe mai di ragionare e citare esempi storici, molti ancora attuali. La conclusione, per un breve saggio, è che tra i regimi più disuguali, quelli che negano addirittura l’esistenza della povertà e dei poveri e vanno avanti con la classe operaia asservita e la borghesia compiacente, esiste il più e meno peggio. Non è un problema di etichette, sono spariti quasi totalmente i comunismi e i socialismi; chi usa ancora tali definizioni ne è distante anni luce, ma lo stesso accade per chi abusa del nome di democrazia, non ne esiste alcuna, che non sia solo nominale e soggetta all’ingiustizia del capitale. Ci si deve accontentare delle poche democrazie più coerenti al loro nome, quelle che valorizzano o cercano di valorizzare (poiché il capitalismo attacca l’indipendenza degli stati) il consueto nome di Repubblica.

Discorrere di identità porta lontano, il passo è breve dalla famiglia allo stato, dalla piccola unità sociale a quella generale. Ma è possibile anche il percorso inverso, tornare alla famiglia, specie quando il sistema generale è ingiusto, o anche relativamente tale. La famiglia se non è degenere, è o dovrebbe essere, il nostro piccolo stato libertario, il nostro comunismo, la nostra democrazia, il nostro sistema solidale, per questo siamo orgogliosi del nostro nome, o per capirci, del nostro cognome, dei nostri cognomi che si moltiplicano di generazione in generazione: 2, 4, 8, 16, 32, 64…

Ha senso in questo contesto apprezzare e amare i nostri avi sconosciuti, lasciare andare la nostra immaginazione verso il verosimile, aggrappandoci a brandelli di conoscenza e di significati.

Vedo allora barche a vela provenienti dall’oriente del Mediterraneo, forse genti fenicie, elleniche, preferibilmente bizantine (la storia dà una mano) che sbarcano in un piccolo approdo del mar di Sardegna e lo denominano Pistis (fede), portu Pistis; una cala riparata dal vento, già frequentata, coperta dalla punta s’Aschivoni, che forma l’insenatura s’Enna de s’Arca. Poca gente che raggiunge l’interno e si stanzia nella Sardegna centro meridionale, forse navigatori poco pazienti, che hanno preferito la vita di collina, almeno i padri di Pepi Pistis di Forru.

Spesso un cognome proviene da un toponimo e dietro ogni toponimo c’è una storia, ci sono uomini e donne che si muovono in un passato remoto e altri che ai nostri giorni hanno mutuato quel nome.

Nomi di luogo, talvolta enigmi irrisolvibili che si velano di mistero come una sfinge, brevi termini che nascondono tomi di vicende infinite e individuano genti e famiglie.

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15 Pistis (67 – 9 s – XIII.XXIVe – 31.07 a) a 29.12.2020

DISTERRU A SU TRAVESSU

Emigrazione al contrario

Fin da bambino ho appreso, nella frequentazione della casa del nonno materno, che le sue origini paterne erano continentali (espressione che viene imputata con meraviglia a noi sardi, ma che viene regolarmente usata anche dagli inglesi per riferirsi all’Europa non insulare). Per l’esattezza fu suo nonno che emigrò in Sardegna per ragioni di lavoro e qui sposò, intorno ai quarant’anni, la mia trisnonna Mariangela, trentenne di Bòttidda, in provincia di Sassari, ma al confine con la provincia di Nuoro.

Mio nonno Tomaso, cui il padre pose il nome del nonno, non amava parlare della famiglia paterna. Mio bisnonno Paolo, quando ancora nonno era bambino, presumibilmente dopo la grande guerra, partì per l’Argentina, peraltro in compagnia di un fratello della moglie, ma dopo qualche anno non si seppe più niente di lui. Anch’io ho raccolto solo ipotesi contrastanti: che si fosse creato una nuova famiglia (anche il cognato, che si sposò in Argentina, non seppe più niente di lui), che fosse tornato in Italia presso la famiglia di origine, addirittura che fosse stato ucciso a Genova…

Nella famiglia prevalse la tesi che avesse abbandonato mia bisnonna e i figli.

Tuttavia gli zii (quali fossero le loro fonti non so: nonno, mia bisnonna, i parenti di Nuoro – ove i bisnonni erano nati entrambi) riferivano notizie sommarie, si parlava di una vaga origine “toscana”…

Nonno ci lasciò che ero ancora adolescente e non ebbi mai modo di approfondire direttamente con lui la questione, tuttavia mi ero ripromesso di fare delle ricerche, visto che le notizie dirette erano piuttosto nebulose.

Iniziai allo stato civile di Nuoro, diversi anni fa. Non trovai molto anche perché alcuni registri erano di complicata lettura e altri erano andati distrutti in un incendio. Non sto a ricostruire l’intera ricerca, ma scoprii che la discendenza riguardava la provincia di Como, allora austriaca, mentre per il Comune potevo solo fare ipotesi, mi ero scritto lo scarabocchio così com’era e poteva essere Asso, Azzio, Azzate… non so che altro. Ma insieme agli scarabocchi, un registro in bella scrittura diceva inequivocabilmente Azzio e questo comunicai ai parenti.

Mi recai ad Azzio ben due volte, ma non trovai nulla; il sindaco e il parroco mi assicurarono che quel cognome non apparteneva a quel paese, era per questo non trovai nulla neppure nell’archivio della pieve. La cosa mi sbalordiva parecchio e feci le mie supposizioni…

La seconda ricerca a Nuoro la feci presso l’archivio diocesano, non ebbi molto spazio là, ma il direttore (o semplicemente la mia guida) mi diede un’informazione fondamentale, che in un primo momento presi con scetticismo: un sito dei “mormoni” pubblicava antichi atti di stato civile (pare che il sito sia stato ora rimosso, non ho verificato). Con calma un giorno feci la ricerca su internet, trovai il sito e, cosa allora per me stupefacente, trovai l’atto di matrimonio, leggibilissimo, dei miei trisnonni: la località era Arcisate, una valle più a est, ma sempre nella “nuova” provincia di Varese.

Ad Arcisate trovai tutte le conferme del caso, grazie all’aiutante dell’archivio parrocchiale.

I misteri non sarebbero finiti, la via più semplice è quella più impossibile: far risuscitare i trisnonni; altre vie, potrebbero essere cercate tra i discendenti ancora presenti nel paese, o ancora, complicate ricerche storiche dai tempi delle 5 giornate di Milano…

Fermo restando che pare il mio trisnonno fosse giunto in Sardegna per lavorare alla ferrovia (ma anche questa è un’ipotesi) – è certo che era capomastro, maestro di muro, per dirla con Francesco Masala, ed era istruito – resta il succo della questione: cosa gli sarà passato per la testa di trasferirsi in Sardegna… Si era verosimilmente innamorato di Mariangela durante il suo soggiorno per lavoro. In fondo lui aveva superato i 40 e lei aveva 29 anni, si sposarono nel 1868 e vissero a Nuoro in Perda de s’oru (chissà se quella o è aperta o chiusa. Òru è l’oro; óru è l’orlo).

Quando scrissi i versi omonimi e altri in seguito, tutto verteva ancora su Azzio in Valcuvia, una bella zona immersa nella natura, ai margini del parco Campo dei fiori. Arcisate però non è da meno, si trova a poca distanza da Varese nella Valceresio. Ciò che non si spiega è cosa c’entri Azzio; sì, perché nell’atto di morte del trisnonno a Nuoro (1882) è indicato chiaramente come Comune di nascita Azzio “del fu Tomaso di Azzio”. E’ vero che gli atti in quei tempi riferivano quanto dichiarato dai testimoni e infatti lo stesso atto riporta altre imprecisioni, ma non credo ci fossero in quel momento in ufficio conoscitori delle valli varesotte per incorrere in un simile equivoco… Tra le altre cose ho pensato a un domicilio o residenza ad Azzio, i due comuni sono vicini (20 km. attraversando il Parco)… A meno che non si siano messi seduta stante a frugare sulla carta geografica nomi verosimili. Non so come potessero essere i documenti di allora, certo alcuni scrivevano in modo poco leggibile.

Il trisnonno comunque nacque sotto l’impero austriaco (com’era la calligrafia austriaca?), poi divenne sardo (suddito del Regno di Sardegna) a 33 anni, chissà che faceva nel 1848 a 22 anni, avrà partecipato alla rivolta?

Entrata la Lombardia nel regno sardo (che per inciso della Sardegna ha solo il nome, ripagato con sfruttamento e tasse) venne a lavorare in Sardegna, come altri lombardi – una sorta di emigrazione al contrario -, qui si stabilisce lasciando la famiglia nel varesotto e iniziando una nuova generazione in Sardegna.

 66 disterru

14 Disterru a su travessu (66 – 8s – XIII.XXIVd – 31.07 a) a 30.11.2020

VIDA PASSADA

Vita arcaica

Mi soffermo spesso a pensare ai miei avi, senza limiti di tempo a volte, dunque spingendomi in una immobilità naturale o solo filosofica, che si trattiene sull’amore per il proprio sangue, per la propria infinita o indefinita ascendenza.

Naturalmente il più delle volte il mio pensiero si contiene fin dove la storia lo sorregge… E fin dove può aiutarmi la scienza storica, antropologica, linguistica e letteraria? Solo fino a ipotesi ai limiti della toponomastica, ma anche esse vanno ragionate, devono avere un fondamento.

Sì, ho cercato, ma non così tanto da poter scrivere un lungo saggio, il problema è che il tempo va gestito e occorre fare delle scelte, dare delle priorità su come impiegarlo.

Tuttavia ho scavato nella mia genealogia a tutto campo e potrei andare oltre, perché non ho superato il Settecento e ancora non conosco il nome di un eptavolo… dovrò tornare negli archivi…

Eppure purtroppo c’è chi non conosce neppure i nomi dei bisnonni e probabilmente in alcuni casi dei nonni, dunque ci sarebbe di che essere soddisfatti.

Stiamo nel Settecento dunque. Non è semplicissimo pensare ai propri avi di allora. Occorre stabilire come erano le strade, come erano le case, che genere di attività svolgessero, quali le sembianze (facendo un tourbillon di particolari da attribuire, tra zii, prozii e il nonno relativo,), quale il carattere (idem), oppure introdurre nella ricostruzione della nebbia, quella aiuta di sicuro!

Nel mio caso di roman dovrei farne parecchi: le località da cui provengono i miei avi sono varie, e in un caso, visto che vivo in un’isola, anche oltre mare. Eppure, solo relativamente al nonno materno, dovrei allontanarmi dalla città in cui vivo. Gli altri tre nonni hanno la discendenza in un raggio contenuto in 10 km.

Potrei cominciare dai pochi elementi che ho per immaginare il mio villaggio natale nel XVIII secolo. Per fortuna ci sono testi che lo descrivono, essendo esso una millenaria sede vescovile – che solo ora papa Francesco, o chi per lui, sta mettendo in discussione, ma non hanno altro da fare? Pensate al Becciu e lasciate in pace la nostra diocesi. O volete ridurre la chiesa come la sanità? Attendiamo un nuovo vescovo e che sia un teologo della liberazione -.

Sicuramente c’era già la Cattedrale attuale, che per quel tempo doveva equivalere a qualche grande meraviglia; nascevano o erano appena nate altre due chiese, ma il quartiere  più popolato era ancora intorno a Santa Maria, l’antica parrocchiale. Dalla piazza una strada sterrata saliva verso alcuni del comuni minori vicini.

Certo, se in quel tempo avessimo avuto un pittore che ci avesse lasciato le sue opere, i suoi paesaggi, sarebbe stato bello. Dobbiamo mettere in moto l’immaginazione, ma dalla nostra parte c’è il fatto che lo sviluppo edilizio rurale non era un tempo sviluppato come ora.

Il quartiere di Santa Maria, aveva vie strette e contorte, come sentieri, su cui si affacciavano case distribuite disordinatamente, con portali per le famiglie più benestanti e ecas (cancelli di legno) per quelle meno abbienti, o anche portali minori; a tratti muri a secco chiudevano i cortili e gli orti che si alternavano alle abitazioni, qualcosa del genere l’avremo vista da bambini, qualcosa esisterà ancora, paesaggio, vesti, sembianze, suoni e pensieri… qualcosa…

La casa del nonno è immersa nella via che ha conservato prevalentemente il suo aspetto antico, muri a secco, dislivelli, serpentine, vicoli. Certo, la proprietà  dei suoi padri comprendeva almeno la metà dell’intero isolato, suddiviso poi tra gli eredi (non vi è stato giustamente majorascato), era una fattoria di contadini e allevatori e li vedo muoversi tra loggiato e corte, fienile e stalle… E giù nella strada il passaggio delle donne con in testa crobis (ceste) piene di panni lavati nel torrente o brocche d’acqua tenute in equilibrio con l’ausilio di un semplice panno arrotolato in cerchio sul capo, un via vai che si incrocia con uomini a cavallo diretti alle loro haciendas, o greggi di pecore che occupano l’intera strada annunciate dallo scampanellio dei pitajólus.

Indimenticabili e dal sapore ancestrale, erano le notti trascorse in casa dei nonni paterni, quando essendo tutti i letti occupati. mi si stendeva un materasso sopra s’intabau (pavimento tavolato) ai piedi del letto matrimoniale. Era per me la panacea, dormivo tranquillissimo perché non avevo la paura che ci fosse qualcosa sotto il letto. Mi è rimasto l’istinto di controllare quando alloggio fuori di casa, anche in albergo… dove talvolta l’amara sorpresa è la polvere.

65 vida passada

13 Vida passada (65-7s-XIII.XXIVc – 31.07 a) a 23.10.2020

ARREXINAS NÒBILIS

Radici nobili

L’uso del sardo, l’ho già scritto, per me è congeniale per trattare la storia familiare; ma contrariamente ai pregiudizi, sia da parte degli stessi sardi (non tutti ovviamente), sia da parte di molti colonizzatori anche del pensiero e delle idee, è una lingua buona per qualsiasi argomento, come tutte del resto.

Il concetto che voglio esprimere pensando ai miei avi, celebrandoli e onorandoli, è che l’attributo di nobile, dunque la nobiltà, non si acquisisce per ricchezza, inganno, crudeltà, perfidia, e via dicendo (nella storia abbiamo avuto tanti casi del genere), la vera nobiltà è la bontà d’animo, il soccorso dei più deboli, il lavoro onesto, la pratica della giustizia, dell’uguaglianza, dunque valori positivi e non negativi.

Perciò pensando ai miei avi lavoratori, soprattutto a quelli che ho conosciuto, devo concludere che essi sono nobili e sono resi tali dalla terra che molti hanno lavorato, dal loro lavoro di maestri di muro, di falegnami, pastori, operai, artigiani, loro sono i miei rex, i miei principi, benché non siano stati ricchi di ori e denari.

Che ragione ci può essere per concepire quella che potrebbe avere l’aria di una polemica, espressa peraltro con la figura retorica della ripetizione? Beh, la ragione è che la storia dell’umanità, ci offre in tutti i tempi degli esempi contradditori evidenti, anche sotto il profilo espressivo, linguistico.

La questione non è semplice perché ci sono delle scuole, anche ad altissimo livello, che stabiliscono quali siano i termini da usare per definire alcune categorie, che hanno anche il potere di fissare una metodologia che bene o male tutti sono chiamati a rispettare; metodologia peraltro che si studia negli atenei e forse ha il difetto di costruire storici troppo uguali a se stessi; non tutti hanno il coraggio di avere una propria lettura degli avvenimenti, una lettura davvero obiettiva, spesso occorre conformarsi all’accademico più forte, alla corrente dominante e le voci che urlano nel deserto restano inascoltate, almeno finché i tempi non diventano maturi per dover accettare verità anche scomode.

Nel nostro tempo abbiamo avuto una miriade di esempi di addomesticamento della storia a interessi di parte, di stati e di potentati; ripristinare la verità non è semplice, sia per la storia remota che per quella contemporanea. Inoltre vi è la tendenza a voler far dire alla storia assodata, certa e obiettiva, cose che non stanno né in cielo né in terra, anche semplicemente per convenienze politiche.

Basti citare lo stragismo di qualche decennio fa, il negazionismo rispetto al nazismo, i vari tentativi di giustificare il fascismo, i clamorosi esempi delle guerre in Vietnam e in Iraq, capi di stato che basano la loro attività sulla menzogna e quando vengono accusati accusano gli altri di falsità.

Nello stato italiano ne sono successe di belle dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. Oltre ai vari fatti clamorosi più o meno accertati e con i responsabili individuati e in qualche caso condannati, si è assistito a un clamoroso cambiamento del modo di far politica, metodi che oggi sono all’ordine del giorno: campagna elettorale permanente, uso della cronaca o degli eventi sempre in maniera elettoralistica, tacitamento delle minoranze…

Ma l’avvento al governo della destra ha comportato l’avvio di diversi disegni occulti che hanno portato al cambiamento della società: uno è stato la demolizione progressiva delle potenzialità pubbliche, in primo luogo della scuola, della sanità, dell’informazione e della magistratura. Riguardo ai primi tre constatiamo oggi, per viverlo sulla nostra pelle, che ci sono riusciti, forse la magistratura resiste ancora, almeno a sprazzi.

Lo scopo è di una evidenza imbarazzante: ottenere una società più ignorante, incapace di reagire alle ingiustizie, renderla più debole in modo che non debba pensare ai diritti, rovesciare l’economia sociale, accentuando la disparità tra ricchi e poveri, controllare l’informazione in modo che l’opinione pubblica sia bombardata da notizie verosimili e la verità sia disponibile per un numero sempre minore di persone.

Questo stato di cose, questa strategia, ha contaminato anche i partiti potenzialmente avversari della conservazione, resi incapaci di difendere adeguatamente i più deboli, per la paura di perdere voti evitando di inseguire le idee reazionarie della destra, specie l’ingannevole politica liberista, nella convinzione che la gente desideri quel genere di economia, come se la popolazione italiana fosse zeppa di nababbi del capitalismo.

Vero è invece che la strategia cui si faceva cenno ha reso la popolazione incapace di valutare per bene quali siano i propri interessi e individuare chi possa portarli avanti, e sicuramente non lo potranno fare né i populisti, né i fascisti, ma neppure il liberismo economico, spada nel fianco dei lavoratori e dei meno abbienti.

64 nobilis

12 Arrexinas nòbilis (64 – 6s – XIII.XXIVb – 31.07 a) a 28.09.2020

BISURAS DE AIÀIUS

Visioni ataviche

Non ho scritto tantissimo in sardo, che tuttavia è la mia lingua madre, lingua che ha risuonato nelle mie orecchie fin dalla nascita e per tutta la mia infanzia, certo prevalentemente.

Ho imparato a parlare il sardo dall’ascolto, giacché i Miei mi si rivolgevano in italiano; nella nostra condizione di colonia la propaganda scolastica, istituzionale, poi radiofonica e televisiva, avevano ampiamente emarginato la nostra lingua in favore di un’altra estranea, straniera, che, a partire dalla Scuola Elementare. ha preso il sopravvento, mentre vi era l’assoluto divieto, espresso esplicitamente nelle classi, con tanto di punizioni, di esprimersi in lingua sarda.

La saccenteria delle istituzioni, il loro scarso senso pedagogico, non intuiva che così facendo rendevano il sardo proibito e rivoluzionario. Così con gli amici si parlava in sardo, si manteneva viva la lingua, salvando, se non il bilinguismo, la diglossia.

Nella mia scrittura, a parte qualche sconfinamento nell’inglese, e più ampiamente nel sardo, prevale la lingua acquisita che specie nella scrittura abbiamo imparato a dominare più della nostra.

Il discorso potrebbe essere lunghissimo, ma ho fatto questa premessa solo per dire che quando scrivo in sardo, oggetto dei miei scritti sono prevalentemente gli ancestors, come usano dire i nativi americani. E’ così perché, benché abbia seguito una decina di corsi di sardo moderno e mi rapporti con diverse persone nella mia lingua madre, la lingua sarda reca in se quella ricchezza ancestrale equivalente al sogno immaginifico della storia passata, della vita del passato, da parte di un bambino, come una sorta di calentura, di qualcosa tra la visione e il delirio.

Le mie visioni ataviche sono questo: una nebbia velata che avvolge un paesaggio nuragico, come un fermo immagine che si sblocca e comincia la vita, la gente si muove, in quel tempo arcano in cui guardo i volti, ma non riconosco nessuno.

Il tempo scorre veloce, mi proietta a Villa Barumeli, paese scomparso vicino al mio e di cui ha ereditato il territorio, oltre quattrocento anni fa, là, tra la folla sparuta scorgo i primi avi che si rivolgono un saluto con un cenno del loro bastone, duecentenari… Ancora meno nitidamente ne scorgo degli altri: Bardilio con Cicita, Raimondo Piga e Rita, Emilia con Narciso, Vincenzo e Cisco Luiso, Raimonda con Vincenzo…

Vedo poi il mio avo Antonio, sindaco, con Giovanni Piras, che bussano alla porta del loro compare Antonio Minai… apre nonna Bellanna Concu, che poi si ritira. I tre complottano contro il re e i piemontesi, mentre le donne si preoccupano e maledicono Carlo Feroce, alla fine del Settecento…

Una semplice visione in cui è evidente la dimensione onirica, dove avi di n generazioni si muovono alla fine del Settecento immersi tra storia e vita quotidiana.

Visione dove però il tempo storico è allargato e si confonde; dove avi sconosciuti per evidenti ragioni, sono però conosciuti attraverso lo studio, alcuni solo per nome, altri maggiormente perché hanno avuto un ruolo nella comunità a cavallo tra Settecento e Ottocento, quando in Sardegna imperversava il viceré Feroce, quel Carlo Felice, poi re sabaudo, che la storia dei “vincenti” voleva rendere “simpatico” e “benefattore”, ma che la saggezza popolare aveva ben stigmatizzato con quel suo appellativo inequivocabile.

Non è il solo caso in cui la storia viene strumentalizzata dai tiranni, quello che è ora lo stato italiano, ha diversi esempi di “eroi” fasulli, dal più noto Garibaldi al più odioso generale Cialdini, entrambi stragisti. Convinti con i loro padroni sabaudi che un paese geograficamente “omogeneo”, si dovesse unire a colpi di fucile, incendio di villaggi, stupri e altre nefandezze terribili. Da loro l’origine di uno stato come quello attuale, disunito, sbilanciato economicamente e socialmente, assolutamente non solidale, dove la politica cavalca le divisioni e ogni rivendicazione egoistica, semplicemente per raggiungere il potere. Questa è l’eredità sabauda ottenuta peraltro attraverso il fascismo, da loro sponsorizzato per vent’anni.

Noi, esponenti della Costante Resistenziale di Sardegna, secondo una storica e obiettiva definizione del nostro più illustre archeologo e storico Giovanni Lilliu, che conosciamo l’importanza dei simboli, in questi anni dibattiamo sulla rimozione della statua del tiranno Carlo Feroce dalla piazza centrale di Cagliari e sulla pulizia della toponomastica viaria della Sardegna dalle imposizioni sabaude e fasciste, dibattito che si sta sviluppando anche nella penisola e nel mondo intero.

E’ bene conoscere la Storia, quella vera, ma celebrare tiranni e assassini dei popoli significa ridicolizzarla, è un insulto a chi ha subito i soprusi e al mondo intero.

63 bisuras

11 – Bisuras de aiàius (63 – 5s – XIII.XXIVa – 31.07 a) a 31.08.2020